martedì 25 giugno 2013

Giovanni Pascoli: L'uomo che sussurrava ai cavalli

La televisione in cucina è una maledizione. No, non siete capitati sul blog di vostro nonno che si lamenta perché a trentasei anni guardate ancora i Simpson, tuttavia dovete ammettere che quella scatola poggiata lì, sul mobile (sono ancora 1.0, a casa mia stiamo aspettando gli schermi ultrapiatti come gli aiuti umanitari della FAO) qualche problemino alla vita di coppia e familiare lo dà. 
Eccome se lo dà.

Siete tornati stanchi da una giornata a scuola, in ufficio, in negozio, in fabbrica, in cantiere… e magari vi va di scambiare due parole con un essere umano? Scordatevelo, toglietevelo completamente dalla testa. Non ci riuscirete.

Ogni volta che tenterete di emettere un qualche tipo di suono che non sia il risucchio del brodino, vi troverete immediatamente catapultati dal tavolo di casa vostra direttamente nella gloriosa Repubblica Popolare Cinese: verrete privati seduta stante del diritto di parola con la seguente frase: «Sshhh, fammi ascoltare», col tipico tono di voce suadente di un dobermann arruolato nelle Waffen-SS.

Purtroppo contro questa ingiustizia non si può fare nulla, quindi smettetela di contattare quelli di Anonymus per hackerare il telecomando di vostra madre o del vostro fidanzato che vi zittisce pure se sta guardando l’imperdibile amichevole San Marino - Congo Belga. In questi casi bisogna imparare dagli antichi: pazienza, invece della maledizione di Tutankhamon a noi è capitata la maledizione di Pippo Baudo.
A casa mia, per esempio, abbiamo sviluppato un distacco tale che nemmeno un monaco buddista che abbia raggiunto il Nirvana


Come molti di voi sapranno durante l’orario di cena vanno in onda i programmi più truculenti: N.C.I.S., Cold Case, Criminal Minds, Veline, Pupo, Enrico Papi, ma soprattutto… C.S.I. Per i pochissimi che non abbiano avuto la fortuna di vedere questo telefilm targato U.S.A., vi riassumo brevemente la struttura narrativa.

I scena- Festa modaiola a cui partecipano solo ragazze in bikini uscite direttamente da Playboy e ragazzi con più tartarughe di tutto l'arcipelago delle Galapagos. Nonostante il tasso di obesità in America sia dell’80% non si trova un ciccione nemmeno a pagarlo

II scena - Durante la suddetta festa tra un tuffo in piscina e un sorso di Martini, come da manuale, ci scappa il morto
III scena - Arrivano i C.S.I., ovvero la scientifica. Contrariamente alla Scientifica italiana non vanno in giro per la scena del crimine vestiti da spermatozoi, con quelle tutine bianche: vestono abiti firmati, scarpe di pelle di panda e soprattutto occhiali da sole griffatissimi, che ti viene da chiederti quanto prendono i poliziotti in America. Dopo aver constatato che la vittima è morta per un’oliva avvelenata nel drink, il tenente dice una frase ad effetto, tipo: «Prima potevi dormire pure con le porte aperte». Parte la sigla degli Who
IV scena - Seguono le analisi delle prove. Quelli di C.S.I. hanno un database enorme: dentro vi sono le impronte digitali di tutta l’umanità da Adamo fino all’Uomo Bicentenario. Inoltre hanno dei macchinari stupendi: vuoi sapere dove è stata prodotta l’oliva fatale? La metti in una provetta e… TAC. Due secondi e il computer ti dice che si tratta di una specie particolare, coltivata solo in Basilicata, hanno usato un concime artificiale fuori commercio. Il contadino si chiama Gino. Stessa cosa pure per il DNA: in Italia impieghiamo sei mesi per fare il test, in C.S.I. bastano trentasei secondi
V scena - Si scopre che tutte le prove non servono a niente: il tenente ha un’idea geniale che porta all’arresto del colpevole
VI scena - In Italia se vieni preso con il coltello in mano mentre stai dando la cinquantaquattresima coltellata alla tua vicina di casa, si usa negare dicendo che sei stato frainteso. In America no, l’interrogatorio più o meno è su questi toni:


«Sei stato tu ad uccidere Caroline con un’oliva avvelenata, coltivata da Gino?»

«No»
«Sicuro?»
«Sì, sono stato io» confessa il colpevole mentre scoppia in un pianto a dirotto

VII scena - Siamo al tramonto (l’omicidio è avvenuto alle dieci di mattina), il tenente dice un’altra frase memorabile sul genere: «Adesso le albicocche non sono saporite come una volta». Rimette gli occhiali da sole. Sigla


Naturalmente ho schematizzato parecchio, tralasciando alcuni piccoli particolari, come il fatto che la regola base per un poliziotto in C.S.I. è: non accendere mai la luce. Se ci fate caso noterete infatti che durante le scene in cui perquisiscono la casa del sospettato, in tutte le dodici stagioni del telefilm, non si vede mai una volta accendere un interruttore, anzi, adesso che ci penso, non mi sembra di aver mai visto un lampadario.

Tuttavia la parte che in più di un’occasione ha rischiato di farci finire in cronaca nera come ennesimo caso di tragedia familiare e portare al divorzio i miei genitori è l’autopsia. 

In un telefilm come C.S.I. l’autopsia è di vitale importanza, una scena irrinunciabile. Il problema è che a casa mia il televisore è di 32 pollici e sta su un mobiletto a dodici centimetri (dodici!) dal tavolo. «Embè?» direte voi. Embè? Praticamente è come se il cadavere fosse direttamente sul nostro tavolo: se riuscite a mangiare tranquillamente le scaloppine mentre sotto al naso vi stanno tirando fuori l’intestino crasso di un povero disgraziato manco fossero salsicce di maiale, qualche domandina me la farei. 


Ebbene, è proprio durante questa scena che lo spettatore medio (nel nostro caso lo definiremo mio padre) si ribella alla macelleria messicana e tenta di convincere l’ultras della serie (che chiameremo mia madre) a cambiare canale adducendo le seguenti motivazioni:
  •  Disturbi di carattere gastro-intestinale alla vista di pezzi di cervello che somigliano sinistramente al ragù alla bolognese che sta tentando di mangiare
  • «Sull’altro canale sta iniziando il telegiornale»
  • Le storie mancano di verosimiglianza

Concentriamoci su questo punto: avete presente le scene da tragedia greca quando siete al ristorante e mangiando una bruschetta per caso vi cade una gocciolina d’olio sulla camicia, no? Ora, in una puntata c’era una donna che si “incontrava” con l’amante nello stesso letto in cui dormiva col marito. Niente di strano, direte voi. Niente, a parte il fatto che la signora in questione con il suo amico si cospargeva completamente di olio d’oliva dalla testa ai piedi manco fossero due melanzane e lui, il marito, tornando a casa da lavoro non si accorgeva di nulla. Evidentemente al posto del materasso avrà usato la carta Scottex.

Purtroppo però, per quanto la serie mi faccia schifo, sono costretto ad ammettere che in Letteratura c’è anche di peggio e non sto parlando di romanzi, ma della vita degli autori, e in particolar modo uno: Giovanni Pascoli.

Giovanni Pascoli, insieme a Carducci e a Montale, è il genere di autori che amo definire a scadenza. Sì, perché normalmente uno studente dopo che abbia fatto l’esame o l’interrogazione, qualcosa di Svevo, Dante o Manzoni se lo ricorda, invece Pascoli no. Pascoli è un po’ come Garibaldi: tutti sanno che è esistito, che è stato un grande, ma a parte le cose basilari, nessuno si ricorda che cacchio ha fatto. 

Ad ogni modo, Giovanni Pascoli nasce il 31 dicembre 1855 in Romagna, quarto di dieci figli. La vita gli fa capire fin da subito che è nato sotto la buona stella: a dodici anni il padre Ruggiero viene ucciso da un agguato in perfetto stile mafioso. Dico stile mafioso per due motivi:
  1. Ruggiero Pascoli probabilmente venne ucciso perché non favorì un criminale locale
  2. All’omicidio assistettero diverse persone, ma nessuno testimoniò. Del resto lo sappiamo che si ragiona così nel Meridione… ah no, scusate era l’Emilia Romagna

Dato che sono fortunati di famiglia, i Pascoli cominciano prima a cadere in miseria, poi per varie circostanze muoiono nell’ordine: la madre e tre dei dieci fratelli. Tuttavia il giovane Giovanni fra alti e bassi, compresa una bocciatura (ma non lo dite alla vostra prof di Letteratura), riesce a diplomarsi e ad iscriversi all’università.

Durante gli anni universitari Pascoli ha come professore nientemeno che Giosuè Carducci, che è un po’ come iscriversi alla scuola guida e trovarsi Michael Schumacher a fare l’istruttore, soprattutto però si avvicina alle idee anarchico-socialiste. 

Il problema di Pascoli non sono tanto le idee, quanto la volontà. Infatti essere anarchico alla fine dell’Ottocento era difficile: venivi guardato come un sovversivo, ti scambiavano per un terrorista, passavi per delinquente. Insomma pari pari agli anni Settanta, solo che nell’Ottocento faceva molto meno figo, forse perché non avevano ancora inventato l’eschimo. Valle a capire certe cose.

Pascoli non aveva il fisico adatto per fare certe cose, difatti partecipa a una sola manifestazione politica in tutta la sua vita e viene arrestato. Immaginate che fortuna. Dopo poco più di tre mesi esce di galera grazie anche all’intercessione dello stesso Carducci (vabbè non è che ve lo devo spiegare io come vanno ste cose) e pensa di suicidarsi, ma capita un miracolo: gli viene assegnata la cattedra di latino e greco in un liceo di Matera.

Ora inizia la parte della vita di Pascoli che normalmente fa girare i cosiddetti agli equilibristi della scuola (ormai essere precari è troppo easy). Infatti Pascoli comincia a girare l’Italia insegnando in vari licei e università, ma si sente insoddisfatto perché vorrebbe ritornare nel suo paesello natio: San Mauro di Romagna. Roba che se si fosse lamentato al giorno d’oggi lo avrebbero lapidato con i libri di Giorgio Faletti: dodici chili l’uno.

In ogni caso il nostro buon Pascoli riesce a essere trasferito in provincia di Lucca e, per la gioia di ogni psichiatra, compra una casa in cui vive con la sorella Maria.

Quando si accenna alla sorella di Pascoli normalmente gli studenti si guardano intorno disorientati ed effettivamente un pochino hanno ragione ce l’hanno, perché:
  • Pascoli per vivere con le sorelle rinuncerà a sposarsi
  • Considerò il matrimonio della sorella Ida una sorta di tradimento (sì, proprio nel senso che state immaginando)
  • Il fatto che lui chiami casa sua «nido familiare», personalmente a me ricorda Charles Manson che chiamava la sua setta «La Famiglia»

Qual era il rapporto fra Giovanni e Maria? È una domanda che gli storici e gli studiosi si sono posti da tempo immemore e dopo approfondite ricerche e centinaia di volumi scritti sull’argomento, sono giunti a una conclusione sorprendente che si può tranquillamente riassumere in sei parole: NON CE NE FREGA UNA BEATA.

Già, perché tutto ciò non influisce minimamente sulla poetica di Pascoli e sul fanciullino, di cui non vi parlerò nemmeno sotto tortura.

Piuttosto merita attenzione un aspetto del poeta che a scuola viene clamorosamente sorvolato.

Avete presente Pascoli, no? Il poeta delle piccole cose, quello che si rifugiava nella vita agreste, che voleva un ritorno alle origini? Ecco, beveva come un autotreno carico di tirolesi.
Infatti negli ultimi anni della sua vita cadde in una profonda depressione che lo portò a bere talmente tanto da procurarsi una cirrosi epatica, anche se la sorella Maria fece di tutto per far credere che fosse morto per altre circostanze.


Ora vi starete domandando che diavolo c’entra C.S.I. con Giovanni Pascoli, ebbene amici miei, vi dico che Pascoli è molto meglio di qualsiasi telefilm di dubbio gusto che abbiate visto finora. Nella scala di Tommaso, ovvero l’unità di misura con cui calcolo le boiate immani sparate da una persona senza essere sotto l’effetto di alcuna sostanza (il nome deriva da Tommaso M., mio compagno di scuola ai tempi del liceo, capace di un coefficiente pari a dodici p/m - palle/minuto), La Cavalla Storna raggiunge quota diciotto.

Per chi non lo sapesse La Cavalla Storna è dedicata alla cavalla che portò il padre di Pascoli a casa dopo che l’ebbero fucilato, nonché unica testimone attendibile del delitto. In pratica il componimento è una sorta di interrogatorio a sta povera bestia che non solo se la sarà fatta nelle mutande per gli spari (stiamo usando una metafora), ma viene pure molestata dalla madre di Pascoli che ogni due secondi le ripete:

O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna

Tsè, altro che database di C.S.I.

Se la scena della donna che parla con la cavalla mentre i bambini cercano di chiamare il 118 per farla ricoverare non vi sembra verosimile, allora significa che non avete letto per intero la poesia. Infatti a un certo punto l’interrogatorio si fa più incalzante e la madre di Pascoli dice:

Chi fu? Chi è? Ti voglio dire un nome.
E tu fa cenno. Dio t’insegni, come

Cioè manca poco che non si arrivi a un confronto all’americana, con i sospettati dietro uno specchio e la cavalla seduta che dice: «Mmm, non fisionomista, ma mi sembra sia il tipo bassino col tatuaggio».


Qui Pascoli potrebbe ancora salvarsi accennando al fatto che la madre fosse disperata, che si trovava in stato di shock e non si rendeva conto di quello che stava facendo, ma Giovannino decide di giocarsi l’ultima carta, perciò la donna fa il nome di chi secondo lei possa aver ucciso il marito e…

Mia madre alzò nel gran silenzio un dito:
disse un nome... Sonò alto un nitrito

Vale a dire la cavalla confessa, dimostrando due cose nell’ordine:
  1. La mamma di Pascoli mangia in testa a San Francesco e al Dottor Dolittle
  2. La cavalla di Pascoli è la prima testimone di mafia della storia d’Italia, dimostrando tra l’altro più senso civico della restante popolazione di San Mauro di Romagna

Va da sé che considerare la poetica di Pascoli basandosi solo su La Cavalla storna è un po’ come giudicare la filmografia italiana avendo guardato solo i film di Muccino: è un tantinello riduttivo. Ma del resto mica pensavate di poter evitare di studiare solamente leggendo questo blog?



Giovanni Pascoli fu uno straordinario poeta capace di comporre anche in latino e in greco e proprio grazie ai proventi dei concorsi di poesia a cui partecipò riuscì a comprare casa (una volta fare poesia pagava). Senza contare che fu un intellettuale di alto livello e esponente del Decadentismo italiano assieme D’Annunzio (e qui le analogie sono finite).


E poi, almeno in Pascoli, l’assassino non è il maggiordomo.