mercoledì 24 dicembre 2014

Torquato Tasso: «Io e le mie ossessioni»

Natale è quel periodo dell’anno in cui tutto può accadere. È quel periodo in cui, da bambino, dai per scontato che un ultraottantenne obeso, a rischio di ipertensione e infarto, se ne vada volando di tetto in tetto su una slitta decappottabile in pieno inverno senza accusare nemmeno un piccolo fastidio alla prostata. Fa tutto in una notte sola, senza mai essere in ritardo e tu ci credi, perché sei bambino, perché sei un’anima candida, perché in vita tua non hai mai viaggiato con Trenitalia e quindi vivi in un mondo fatato dove non impieghi 4 ore per percorrere 30 chilometri. Del resto la televisione non ti aiuta: appena scatta il 1 dicembre appaiono sullo schermo renne parlanti, pupazzi di neve che ballano il tiptap, gnomi e folletti che nemmeno dopo un clistere di LSD.
Avendo un animo fanciullesco, anch’io ho una creatura immaginaria preferita: il commesso competente di MediaWorld. Per chi non fosse mai stato da MediaWorld si rende necessaria una spiegazione. La scena è quella che segue.

Mancano pochi giorni a Natale e, logorato dalle canzoni dei Modà e dei Tiromancino che tuo fratello carica sul tuo sull’iPod a tua insaputa, decidi di regalargli un lettore MP3 tutto suo. Così, con le orecchie sanguinanti, ti avvii verso il MediaWorld più vicino e finalmente trovi l’oggetto che cercavi. A questo punto si aprono due scenari:
  1. Vai alla cassa e paghi
  2. Preso dalla sindrome del vecchietto che osserva i cantieri ti viene voglia di fare qualche domanda per saperne di più sul lettore MP3 che ti stai accingendo a comprare



La soluzione è lì a portata di mano, ma tu hai studiato Lettere e perciò non sai riconoscere la strada breve nemmeno se compare una hostess che ti indica il corridoio luminoso. Afferri perciò il lettore dallo scaffale e lo porti al commesso più vicino che, essendo il primo che hai agganciato, da contratto risponderà: «Guardi, non sono di questo reparto. Deve chiedere al collega», indicando un puntino rosso indistinto dall’altra parte del negozio (6800 metri quadrati). Dopo aver preso tre navette, due funicolari e un aliscafo, finalmente raggiungi il puntino rosso e chiedi: «Scusi, volevo sapere se legge anche il formato WMA». Il commesso MediaWorld allora prende in mano la scatola con una lentezza vista solo in un film d’autore francese e comincia a rigirarla con una faccia piena di stupore che sembra dire: «Ma davvero in sto coso così piccino c’entrano migliaia e migliaia di canzoni?». Il commesso MediaWorld, che nonostante il suo lavoro per quanto riguarda le nuove tecnologie è rimasto fermo alla pentola a pressione, è tuttavia un tipo scaltro, per cui nella sua mente si apre questo diagramma: 



Capite bene che, con un diagramma del genere, potete chiedergli pure: «Ma posso inserire anche delle batterie termonucleari con vassilisca propionata al pomodoro?». Il commesso vi dirà: «Certamente!», come se fosse la cosa più naturale del mondo. 

Ma perché questo masochismo da parte di MediaWorld? Io mi sono fatto una mia idea: in realtà i commessi MediaWorld sono gentiluomini e gentildonne del XVIII secolo che sono stati ibernati e scongelati nella nostra era per testare le loro reazioni stupite davanti alle meraviglie della tecnologia moderna: televisori LED, computer portatili, stampanti 3D, macchine da scrivere, piastre per fare i waffle in casa…
In alternativa potrebbe essere che in realtà i commessi di MediaWorld siano dipendenti di altre catene di elettronica stipendiati per far fallire i concorrenti.

Ora, in una situazione di oscurantismo come questa, dove i commessi ti affibbiano stufe a pellet spacciandole per lettori Blu-ray, è evidente che a Natale esiste un solo e vero eroe: l’esperto di tecnologia casalingo. Manco a dirlo, nella mia famiglia sono proprio io.
Che poi, se proprio vogliamo essere precisi, l’esperto di tecnologia in realtà è appena un gradino sopra al cambiare le pile del telecomando ma, diciamocela tutta, si crogiola nel suo momento di gloria: appena si scarta qualsiasi tipo di marchingegno elettronico, subito qualcuno urla: «Ma faglielo vedere a [inserire nome del vostro esperto di tecnologia casalingo] che ne capisce di queste cose». E così, mentre ti muovi a rallentatore con una musica epica in sottofondo, tra lo sguardo ammirato di nonne e zie, afferri il tostapane (perché nel 90% dei casi a nessuno verrebbe in mente di regalare un iMac a zio Pasquale, che ha una FIAT 126 del ’71 e considera i Pooh un gruppo heavy metal satanico) e dai il tuo parere. Il tutto mentre qualcuno puntualmente commenta: «Ma com’è che non sta in orbita con Samantha Cristoforetti, che è così bravo con ste cose?». Roba che se ti vedesse, il tuo amico ingegnere costruirebbe una sedia elettrica con le luci del presepe e ti fulminerebbe davanti a tutti i parenti. Il giorno della vigilia.

Tutto sembra perfetto, ti stai godendo pieno di commozione l’unico momento dell’anno in cui qualcuno ascolta la tua opinione (per un laureato in Lettere è una soddisfazione), nulla potrebbe turbare questa armonia. Nulla eccetto una persona. Tu avverti la sua presenza, come Pegasus nei Cavalieri dello Zodiaco percepisci che c’è una perturbazione nel Cosmo e che il tuo acerrimo nemico si sta avvicinando. È subdolo, ha il viso e l’aspetto di un tuo parente ma tu sai che non è lui a parlare ma un demone che si è impossessato del suo corpo: il tecnoscettico.
Il tecnoscettico è un individuo mite e amabile come una convention di bonzi tibetani e nel corso dell’anno arrivi a pensare che se il mondo fosse governato da persone come lui non ci sarebbero più guerre. Fino al giorno in cui il tecnoscettico non riceve un regalo tecnologico. Già, perché il tecnoscettico è un po’ come quelle persone che dicono: «Sono molto sportivo» solo perché guardano in televisione ogni sport che mente umana abbia concepito ma in realtà l’unico modo per farli alzare dal divano è procedere chirurgicamente. Ecco, il nostro eroe si circonda di ogni sorta di gadget tecnologico all’ultima moda ma non ha la minima idea di come farlo funzionare; per di più ha un orizzonte delle aspettative molto ampio: cioè fondamentalmente compra marchingegni non per le loro caratteristiche e funzioni effettive, ma per le caratteristiche e funzioni che lui crede che il marchingegno abbia.

Vi faccio un esempio. Il titolo di tecnoscettico in famiglia se lo contendono mio fratello e il padre della mia ragazza, ma per una questione anagrafica darò la precedenza a quest’ultimo. La cosa si svolge in cinque passi:
  1. La raccolta di informazioni: che si tratti di uno spremiagrumi o di una trivellatrice per fare i carotaggi in Antartide, l’acquisto è preceduto da mesi (mesi!) di preparazione con ricerche su internet, opinioni di colleghi, sondaggi Censis, interpellanze parlamentari, brainstorming con esperti del CERN di Ginevra
  2. L’acquisto: ci si reca in negozio e prima di fare il grande passo si parla con il commesso, raccontandogli la fase precedente e fornendogli tutte le indicazioni che potrebbero essere utili per orientare al meglio il suo consiglio, comprese planimetria della casa e ultime analisi dei trigliceridi
  3.  L’installazione: tutto procede a meraviglia ma ad un certo punto, quando ormai vedi la luce in fondo al tunnel, lui ti blocca e ti dice: «Mmm, qui c’è un problema». Con gli occhi pieni di terrore lo vedi con le mani sui fianchi mentre ti espone la sua teoria su come andrebbe montata quella cosa. Seguono dai 15 a 25 minuti, libretto delle istruzioni alla mano, per convincerlo che è improbabile che una multinazionale giapponese, che paga centinaia di migliaia di dollari all’anno ai suoi ingegneri e in ricerca, non sappia come funzionino i suoi apparecchi
  4. Le aspettative: è la parte più drammatica. Lui si è fatto un’idea di quello che l’apparecchio che ha comprato dovrebbe fare, peccato che il più delle volte non coincide con la realtà, pertanto si procede con il teatro dell’assurdo.
Lui: «Bene, come si fa a registrare i programmi?»
Tu: «Guarda che questo è un modem»
Lui: «E allora? Il mio collega ci registra i programmi»
Tu: «Può darsi che ha un modem collegato a un decoder Sky»
Lui: «E allora colleghiamolo al decoder»
Tu: «Ma tu non sei abbonato a Sky»
Lui: «Ah, giusto… Com’è che si registrano i programmi?»

5. La presa di coscienza: è la fase più drammatica. Qui il nostro eroe prende coscienza del fatto che Walt Disney quando diceva «Se puoi sognarlo puoi farlo» non si riferiva alla possibilità di fare un ottimo cappuccino con una lavatrice. In questa fase il teatro dell’assurdo lascia spazio al teatro kabuki con reiterati tentativi di harakiri appena si raggiunge la consapevolezza che quelli del CERN hanno mentito. Sovente questa fase è accompagnata da manie di persecuzione con frasi del tipo «Perché solo a me capitano queste cose?»

Inutile tentare di spiegare al tecnoscettico che non c’è nessun complotto delle multinazionali dell’elettronica per farti comprare quanti più oggetti possibile: con il frullatore non ci puoi vedere le partite.

Ma è il tecnoscettico un uomo nuovo che si fa carico di tutte le ansie moderne? In verità no. Personaggi che vedevano sempre qualcosa di strano e di oscuro che tramava contro di loro ce ne sono sempre stati e uno di questi era nientemeno che Torquato Tasso.

Torquato Tasso nacque a Sorrento l’11 marzo del 1544 da una famiglia di origini toscane al servizio di Ferrante Sanseverino, principe di Salerno. Per ragioni che non vi sto qui a spiegare, Torquato e il padre viaggiano in lungo e in largo per tutta l’Italia manco avessero fatto i trapezisti nel circo Togni. Come ogni buona famiglia rinascimentale, anche in quella del futuro scrittore non mancano episodi edificanti da raccontare ai nipotini la sera di Natale: tipo la nonna che è stata avvelenata dagli zii per una questione di eredità oppure la sorella che per poco non veniva rapita dagli ottomani (il rapimento alieno non era molto in voga all’epoca).
Essendo figlio di buona famiglia, da copione viene mandato a studiare legge a Padova, che all’epoca era un po’ come fare l’Erasmus e, da perfetto studente fuori sede, tutto fa tranne che studiare. Infatti si innamora di Lucrezia Bendidio (era il cognome, non il soprannome) e le dedica una serie di componimenti, fin quando qualcuno non gli fa notare che la ragazza è già promessa sposa. Il giovane però la prende bene e comincia a scrivere delle rime in occasione di funerali di personaggi illustri, una roba così deprimente che non sarebbe venuta in mente neanche a Leopardi.

Il padre di Torquato, capito che il figlio di fare l’avvocato non ne vuole proprio sapere, invece di fargli fare un concorso per farlo assumere nelle Poste, sceglie una strada che in un’epoca legalità e trasparenza come la nostra appare impensabile: lo raccomanda al cardinale Luigi d’Este che prontamente lo assume come segretario. In questo periodo Tasso comincia a scrivere il primo nucleo della Gerusalemme liberata che lui chiama Gottifredo, da Goffredo di Buglione, protagonista dell'opera. Alla corte di Luigi d’Este viene in contatto con altri intellettuali (la dicitura odierna è nullafacenti) che influenzeranno la sua scrittura.
Ma in che cosa consisteva il lavoro di segretario? A differenza di Ariosto, che per poco non doveva anche montare i mobili che il suo signore comprava all’IKEA, a Tasso fu data l’opportunità di dedicarsi solo ed esclusivamente alla scrittura. «Bella fortuna!» direte voi. Ecco, infatti Tasso a un certo punto decide di lasciare il cardinale Luigi d’Este e si recò alla corte di Alfonso II, a Ferrara. E qui iniziano i problemi.

Mentre è al servizio di Alfonso II, Tasso completa la stesura di quella che sarà la Gerusalemme liberata ma che per il momento non ha ancora un nome. La situazione editoriale dell’epoca è un pochino complessa: non è che potevi andare da un editore che con un piccolo investimento di 3000 euro ti faceva il booktrailer su YouTube ed altre menate del genere per fare lo splendido con gli amici. No, perché solo qualche anno prima al papa Paolo IV era venuta in mente una brillante idea: creare l’Index librorum prohibitorum che, contrariamente a quello che può suggerire il nome, non è una formula presa da Harry Potter ma si tratta dell’Indice dei libri proibiti. Praticamente tutti i libri che venivano scritti e stampati dovevano passare l’esame della Congregazione dell’Indice, un organismo pontificio che aveva la facoltà di decidere se un libro dovesse essere divulgato o meno.
La Congregazione, oltre ad occuparsi di “cultura”, poteva cortesemente segnalare un determinato autore all’Inquisizione che si occupava di portarlo sulla retta via con dei metodi talmente efficaci che farebbero sembrare i torturatori della CIA una comitiva di wedding planner. Sì, lo so che vedendo i titoli sugli scaffali delle librerie nel periodo natalizio vi viene nostalgia dell’Indice, tuttavia considerate che nella lista ci finirono gente come Dante, Petrarca, Croce, Foscolo, Machiavelli e fra gli ultimi anche l’intera opera di Moravia. Insomma, i peggiori si salverebbero in ogni caso.

Ma ritorniamo al nostro eroe. Tasso, giustamente, non ha nessuna intenzione di farsi strappare le unghie delle mani e dei piedi perché magari a qualcuno della Congregazione non è piaciuta la punteggiatura, perciò prima di pubblicare la sua opera la sottopone al giudizio di cinque eruditi: Sperone Speroni, Scipione Gonzaga, Flaminio de’ Nobili, Silvio Antoniano e Pier Angelio Bargeo.
Tasso ha tutte le buone intenzioni, purtroppo però dimentica che il Fight Club a confronto dell’ambiente letterario è una specie di circolo del cucito: infatti i cinque eruditi lo massacrano su tutti i fronti, soprattutto per quello che riguarda i contenuti moralistici dell’opera. Il nostro Torquato tuttavia sa di avere scritto una grande opera, perciò dapprima ribatte duramente, poi si ricorda che fra i cinque ci sono due cardinali che non ci metterebbero niente a mandare una letterina all’Inquisizione. Per questo motivo lo scrittore comincia a scrivere una serie di missive quotidiane agli eruditi per chiedere consigli e spiegazioni e che fanno di lui anche il vero e indiscusso l’inventore dello spam.

Nel frattempo Tasso è anche stressato per il clima presso la corte di Alfonso II, infatti litiga spesso con alcuni cortigiani che arrivano addirittura a bastonarlo. Stanco di questa situazione e, preso anche da manie di persecuzione, decide di autodenunciarsi all’Inquisizione ferrarese. Il fatto che nell’autodenuncia il ragazzo faccia anche i nomi di alcuni cortigiani non aiuta molto a distendere i rapporti con il resto della corte, tant’è vero che Alfonso II decide di segregarlo nelle segrete del castello per evitare che vada a riferire quello che succede a Ferrara all’Inquisizione romana e quindi al papa. 

Pur non avendo mai visto Le ali della libertà con Morgan Freeman, Tasso riesce a scappare travestito da pastore e decide di far visita a Cornelia, sua sorella che abitava a Sorrento. Non si vedevano da anni, si sarà presentato con una scatola di biscotti danesi, penserete voi. Invece no, da simpaticissimo burlone qual era, appena gli aprono la porta, dice: «Tuo fratello è morto». Ovviamente alla poveretta viene un collasso, salvo poi confessare: «Stavo scherzando, volevo vedere se ci rimanevi male». Una volta convinta a posare la mazza chiodata che aveva prontamente afferrato per dimostrargli quanto aveva gradito lo scherzo, Cornelia decide di accoglierlo diversi mesi. Torquato però è un animo inquieto e di stare a fare il limoncello a Sorrento non ne vuole proprio sapere, perciò scrive una struggente lettera al duca Alfonso per invocare il suo perdono. Alfonso II si dimostra così magnanimo che non solo lo perdona, ma appena lo vede addirittura gli dà la stessa stanza di quando era partito. Nelle segrete del castello.

Fuggito di nuovo, Tasso comincia a peregrinare in tutta Italia fin quando non viene ospitato dal suo vecchio “datore di lavoro” il cardinale Luigi d’Este. Alla corte di quest’ultimo però lo scrittore viene colto da nuove crisi persecutorie e vede complotti dappertutto. Invece di dargli un programma tutto suo su Italia 1 in cui parlare delle scie chimiche o fargli aprire una pagina Facebook sui cerchi nel grano, il cardinale, da uomo lungimirante, lo fa rinchiudere nell’Ospedale di Sant’Anna, dove rimarrà per sette anni. L’Ospedale di Sant’Anna è il prototipo delle odierne strutture sanitarie pubbliche: assi di legno al posto del letto, cibo razionato e di pessima qualità, condizioni igieniche che rispettavano gli standard di una discarica abusiva.
Durante questo gradevole soggiorno Tasso accusa un rodimento d’intestino. Ad essere sinceri lo si può ben capire, visto che, approfittando della sua condizione, qualcuno decide a sua insaputa di dare alle stampe la Gerusalemme liberata

Piccolo momento curiosità: com’era accaduto qualche secolo prima con la Commedia di Dante (a cui Boccaccio diede l’attributo di Divina), anche nel caso della Gerusalemme liberata il titolo non venne scelto dall’autore. Nel caso del Tasso fu Angelo Ingegneri, promotore della prima edizione pirata, a dare il nome al capolavoro. È un po’ come se il nome degli album di Gigi D’Alessio li scegliessero quelli che vendono i CD masterizzati sulle bancarelle.

Anche se in condizioni piuttosto malandate Torquato Tasso però non ci sta a vedere la sua opera pubblicata a quel modo (aveva paura di finire sul rogo quando ci lavorava personalmente, figuriamoci adesso che ci lavoravano altri), perciò decide di rimboccarsi le maniche e di finire quello che aveva iniziato. Risultato: esattamente quello che avremmo oggi, a distanza di quasi seicento anni. Successo di pubblico stupefacente, critica un po’ tiepidina. Fra i primi a stroncare la Gerusalemme liberata c’è l’Accademia della Crusca che se la prende con il poeta per il largo uso di parole barbariche e cita come esempio fulgido di poesia Ludovico Ariosto scatenando una durissima polemica fra i sostenitori dell’uno e dell’altro paragonabile solo a uno scontro fra hooligans ubriachi. A onor del vero bisogna dire che Tasso sì, ci rimase male per come lo avevano trattato gli Infarinati (cioè gli accademici della Crusca), tuttavia non fu lui ad alimentare lo scontro bensì altri letterati. 

Uscito dall’Ospedale di Sant’Anna, il poeta ricomincia il suo peregrinare per l’Italia, di corte in corte, fino ad arrivare a Napoli. Qui le cronache ci dicono che le sue condizioni migliorano notevolmente: infatti oltre all’autolesionismo aggiunge pure delle visioni.
Il resto della vita di Tasso è tutto un andare di qua e di là in cerca di protezione, salvo poi scappare improvvisamente perché convinto che qualcuno trami contro di lui, fino al 25 aprile del 1595 quando, a soli 51 anni, muore a Roma.

Ora, giustamente, uno si può anche chiedere: «Ma com’è che la prof mi deve interrogare su uno che si tagliava da solo peggio di un emo?». Obiezione più che giusta, ma lasciatemi spiegare meglio di chi stiamo parlando.
Torquato Tasso è stato sfortunato, non tanto per le persone di cui si è circondato, quanto per l’epoca in cui è nato. Insomma, guardiamoci in faccia, ci sono scrittori e registi che sulle loro fobie e manie ci hanno costruito una carriera: Woody Allen, Hemingway, Stephen King… Se Tasso fosse nato, che ne so, nel 1974, la cosa più atroce che gli sarebbe capitata è un’intervista di 45 minuti da Fazio o da Daria Bignardi. Magari poi avrebbe rimpianto le segrete del castello di Ferrara, ma questo è un altro discorso.
Tasso è un poeta che va non solo letto e apprezzato, ma anche “coccolato”, è un autore la cui grandezza è stata scoperta solo dopo la sua morte e, checché se ne dica, non è che deve essere sta grande soddisfazione.

Siete ancora convinti che Tasso sia stato uno psicopatico? E se vi dicessi che forse forse un pochino aveva ragione? Già, perché è vero che il nostro poeta aveva una paura incontrollabile dell’Inquisizione, ma è anche vero che il motivo per cui Alfonso II lo rinchiuse non fu quello di mettere al sicuro un pazzo pericoloso per sé e per gli altri: Tasso era pericoloso per la corte del duca, infatti se avesse testimoniato davanti all’Inquisizione romana avrebbe detto due o tre cosine sui cortigiani di Alfonso II che avrebbero potuto incrinare i rapporti con il Papa.
Quindi altro che Giacobbo, Tasso stava a Guantanamo.

Se nonostante questa spiegazione siete ancora convinti che non valga la pena leggere Tasso, beh, vi posso augurare di essere assunti da MediaWorld e di avere come clienti solo ed esclusivamente tecnoscettici.





mercoledì 19 novembre 2014

TFA 2014: Odissea nell'ospizio



C’è stato un momento nella nostra storia in cui la televisione non era piena di sedicenni incinte e culturisti che scoppiano a piangere perché non gli è venuta bene la crème brûlé. No, c’è stato un momento in cui la televisione aveva davvero un ruolo educativo, ti insegnava i veri valori come l’amicizia, la solidarietà, l’affrontare le difficoltà. Insomma, ti insegnava quanto può essere dura, ingiusta e spietata la vita. Sto parlando della televisione che trasmetteva Giochi senza frontiere.

Per chi conosce a memoria i nomi di tutti i Pokémon ma non ha la minima idea di chi diavolo sia Ataru Moroboshi, cerco di sintetizzare (ma comunque vergognatevi e colmate la lacuna su Wikipedia).
Giochi senza frontiere era un simpatico programma televisivo che tutte le estati andava in onda su Rai1. La particolarità del format consisteva nel fatto che vi partecipavano squadre provenienti da tutta Europa. Ma proprio tutta: Francia, Spagna, Italia, Germania, Malta, Andorra, Belgio… praticamente era l’unica occasione per noi bambini, cresciuti a cavallo fra gli anni 80 e 90, per dire: «Uuuuuh, mamma guarda: un sammarinese!», additando il televisore come se avessimo visto l’ultimo esemplare di bonobo vivente sulla faccia della Terra.
Tuttavia il vero punto di forza del programma era un malcelato sadismo nelle prove: potevi vedere stimati ingegneri di Pordenone vestiti da birilli cadere inesorabilmente sotto i colpi di palle da bowling di gommapiuma da 350 kg; fisici nucleari di Francoforte cercare di espugnare a colpi di ariete castelli medievali rosa shocking; prestigiosi architetti danesi portare in bocca decine di palline di plastica da un capo all’altro di una piscina che nemmeno a un raduno di sadomasochisti. 
Cose così, per capirci.

Ecco, questo ha insegnato a noi trentenni (o giù di lì) la televisione. E sinceramente credevo che tutti questi valori fossero andati definitivamente perduti, che le nuove generazioni non sarebbero mai state temprate dal finto acciaio delle spade di gommapiuma della squadra olandese.
Evidentemente questa preoccupazione ce l’hanno avuta anche al Ministero della Pubblica Istruzione, per questo, per il nostro sommo bene, hanno ideato una speciale edizione di Giochi senza frontiere per aspiranti insegnanti ma, dato che il nome era già registrato, hanno deciso di chiamarla TFA.

Per chi non avesse letto questo post (i consigli per gli acquisti sono un’altra cosa che ci hanno insegnato i gloriosi anni 80), vi riassumo in pochi punti cos’è che bisogna fare per diventare un insegnante:


  1. Prendere la laurea triennale
  2. Riprendersi dallo shock provocato dalla notizia che la laurea triennale ha lo stesso valore legale di un pacco di rotoloni Regina
  3. Prendere una laurea magistrale
  4. Riprendersi dallo shock provocato dalla notizia che la laurea magistrale può fare per la tua situazione lavorativa quello che Gasparri ha fatto per la cultura
  5. Abilitarsi tramite TFA
  6. Vincere un concorso
  7.  Sperare che un collega più anziano ceda all’ineluttabilità della natura e lasci un posto vacante

Ovviamente in questo post ci concentreremo sul punto 5.

Come tutti i laureati in Materie-Che-Non-Consentono-Di-Aprire-Uno-Studio-Privato-E-Fare-Fatture-False (facoltà associata a quella di Se-Mi-Chiede-La-Fattura-Non-Le-Posso-Fare-Lo-Sconto), anch’io ho tentato la carta del TFA.
Superata la prova preselettiva, che consiste nel mettere crocette a casaccio come le scimmie che la NASA mandava in orbita negli anni '50, si arriva alla prova scritta. «E poi sei abilitato?» chiederete voi. Ma nemmeno per sogno! Se si supera la prova scritta c’è un orale, che consiste nella discussione della prova scritta, più una serie di domande che vengono estratte a sorteggio da un cilindro magico che metterebbe in imbarazzo pure Silvan. «E poi sei abilitato?». No, perché dopo aver superato l’orale bisogna seguire un corso universitario di un anno. «A questo punto però sei abilitato!». No, miei piccoli ingenuotti, perché bisogna anche svolgere un tirocinio di diverse centinaia di ore, da far conciliare con il lavoro di tessitore di tappeti in Indonesia che nel frattempo avete trovato per pagare i 2500 euro di tasse per il TFA (avevo dimenticato di dire che non è gratis, nevvero?).
Ecco, dopo aver superato tutto ciò, ora sì, siete abilitati.
Tecnicamente TFA sarebbe l’acronimo di Tirocinio Formativo Attivo, ma da alcuni documenti segreti trovati nei sotterranei del Ministero sembrerebbe che l’esatta dicitura sia: Tortura a Fini Antropologici.
E io ne ho le prove.

La mia prova scritta si è svolta in piena emergenza maltempo, in una città e in un’università che eviterò accuratamente di menzionare ma che d’ora in poi, per ovvie ragioni, chiamerò come il più celebre flop di Kevin Costner: Waterworld, il cui successo spiega come mai uno che ha vinto l'Oscar si sia ridotto ad aprire scatolette di tonno a pranzo.  Ebbene, mentre in tutta Italia gli Atenei rimanevano chiusi per la presenza di gondolieri e moto d’acqua nelle aule, a Waterworld si proseguiva normalmente con lo svolgimento del TFA. Tale scelta ovviamente riflette il fatto che il primo criterio di selezione adottato dal Rettore è stato su base biblica: «i sopravvissuti al diluvio avranno diritto a fare la prova». Questa parte dovreste leggerla con la stessa voce di Charlton Heston nei Dieci Comandamenti.
Parcheggiato comodamente il mio pedalò, entro in aula e mi guardo attorno per valutare la situazione: Lourdes in alta stagione. 
Attorno a me, contrariamente alle aspettative, vedo orde di quarantenni e cinquantenni che, dopo decenni di supplenze fatte per lo più in uno sperduto paesino della Basilicata raggiungibile facendosi tranquillamente paracadutare da un cargo militare, devono pure dimostrare che in fin dei conti sanno insegnare. «Ma c’erano pure i giovani?». Sì, c’erano ma è stato difficile individuarli.
Mi spiego.

La nuova tendenza del giovane laureato in Lettere è farsi crescere una bella barba ispida. Non tipo George Clooney, stiamo parlando di una cosa più sul genere ZZ Top.
Da quello che ho capito, la barba non ha una funzione di protesta sociale, come poteva avvenire nel ’68, è più che altro un antistress da accarezzare mentre si disquisisce amabilmente sulla metalepsi o altre figure retoriche che nessun autore mentalmente stabile inserirebbe in un manuale. Peccato che proprio quella mattina avevo deciso di dare una scossa al mio look da DDD (Dipendente Da Divano) e mi ero fatto la barba.
Mentre ero lì che mi accarezzavo i peli delle ascelle per non essere da meno ai miei colleghi, entrano in aula i commissari di Waterworld che cominciano a farci fare una serie di operazioni degne del miglior Dj Francesco ai tempi della Canzone del Capitano:
  • «Uscite tutti»
  • «Rientrate tutti per riprendervi dizionari e giacche»
  • «Riuscite tutti»
  • «Rientrate tutti ma facendoci vedere la carta d’identità»
  • «State in fila nell’attesa che vi facciamo il secondo riconoscimento»
  • «Non sedetevi mentre aspettate il riconoscimento»
  • «Andate alla cattedra e fatevi riconoscere prendendo fogli e buste varie»

Il tutto mentre in lontananza si sentiva la musica del Gioca Jouer.

Dopo aver messo una «mano alla cintura» e fatto un «movimento sexy», sempre per non sentirmi il solito inadeguato, prendo posto. Ora, dovete sapere che sono un tipo abbastanza ansioso, ma non ansioso del genere: «Secondo te uscirà Leopardi? Perché su Leopardi sono preparato. E se invece esce Ungaretti? Speriamo di no, perché Ungaretti l’ho studiato però non sono ferratissimo perché…», il genere insomma che tu abbatteresti con una fucilata in mezzo agli applausi delle altre persone che non hanno avuto la tua stessa prontezza di spirito. No, io sono il genere di ansioso pacifico, quello che: «Per cortesia, già sto in ansia, parliamo pure della riproduzione dei pinguini in Antartide, basta che non mi metti altra agitazione addosso con l’uso del metaplasmo di coniugazione nella poesia del Duecento».
Ebbene, chi mi capita proprio dietro la nuca? Una Lholetto. Il/la Lholetto è il peggior nemico dell’ansioso pacifico perché gli trasmette un colossale senso di inadeguatezza. L’habitat naturale di questa simpatica creature sono le aule universitarie, le sale d’aspetto del medico, le sale d’attesa degli aeroporti… praticamente ovunque ci sia gente ansiosa. Il Lholetto deve il suo nome al fastidioso intercalare «Ah sì, l’ho letto». In pratica è la versione biologica dell’Enciclopedia Treccani: qualsiasi cosa gli/le si domandi, dalla fabbricazione dei sommergibili atomici sovietici classe Tifone fino al nome del nuovo tronista di Uomini e Donne, lui/lei ti dirà di averlo letto (sempre per caso e di sfuggita) proprio ieri. Peccato che nella stragrande maggioranza dei casi le affermazioni del/della Lholetto non siano assolutamente verificabili e manchino di qualsiasi base scientifica.
Insomma, me ne stavo lì tranquillo a contemplare le mie mani sudaticce, quando sento la Lholetto commentare: «Speriamo bene, perché ho sentito che in un’altra università qualche giorno fa hanno chiesto: l’analisi del testo di una poesia di uno scrittore mozambicano in letteratura; la cronologia dei regnanti lapponi in storia; e i flussi migratori dei Tuareg in geografia». Ho dovuto fare appello a tutto il mio spirito pacifista per trattenermi dall’eliminare con un colpo di machete sapientemente assestato una pericolosa terrorista che divulgava notizie false e tendenziose (ma potrebbe essere anche stata la casualità di non aver messo un machete nella borsa).

Comunque sia, una volta che tutti hanno preso posto, viene mandato un addetto a fare le fotocopie dei testi della prova per tutti. Non lo vedremo per le successive due ore.
Approfittando di questa pausa prima dell’inizio, i commissari di Waterworld, per guadagnare tempo, cominciano a dare informazioni sulle modalità di svolgimento della prova, del corso, sui pagamenti, sulle materie che verranno affrontate nel corso del TFA, sugli orari degli autobus per raggiungere l’università, sulla crisi economica, sulla situazione mediorientale… da un momento all’altro ci si aspetta che entrino dei nani sui monocicli per intrattenerci. L’attesa è snervante, tanto che a un certo punto da una delle file più periferiche si alza un ragazzo dall’apparente età di 12 anni (che vi credete, mica solo a matematica ci sono i geni?) che, con un’umiltà pari solo a quella di Vittorio Sgarbi, sbotta: «Professoressa mi scusi, si può sapere che fine hanno fatto le fotocopie? Non sono mica qui a perdere tempo!». 

Superato questo toccante momento di cruda poesia, finalmente arrivano le tracce: Montale per la lirica e un semisconosciuto autore della Scapigliatura per la prosa (se vi scrivo il nome capite dove si trova Waterworld). La logica, il buon senso e pure mio padre che mi ha pagato le tasse universitarie, imporrebbero che avessi scelto Montale. E invece no.
Potrei dirvi che l’ho fatto perché ero l’unico nel raggio di 2000 km quadrati a conoscere quel brano, potrei dirvi che l’ho fatto perché amo le sfide, potrei dirvi che l’ho fatto per protesta. Ma semplicemente l’ho fatto perché ero l’unico cretino ad aver dimenticato il dizionario e non avevo la minima idea di cosa diavolo fossero sti émbrici di Montale che volavano per tutta la poesia. Per cui mi è toccato analizzare un brano di cui non sapevo assolutamente nulla con la costante sensazione di scrivere solamente fuffa. Inutile dirvi che, con questi presupposti, la soddisfazione più grande è stata quella di riempire la bellezza di due fogli protocollo. Fuffa, ma almeno abbondante.

Giunti a questo punto, vi dovrei dire come è andata, ma la verità è che al momento non ne ho la minima idea. Ovviamente spero che sia andato tutto per il meglio, tuttavia, nel dubbio ho già preparato la valigia. 
Mi hanno detto che in Olanda ci sono un mucchio castelli rosa shocking da espugnare.

P.S.
State tranquilli, dalla prossima volta torno a parlare di Letteratura. Mica è il blog di Selvaggia Lucarelli.




domenica 12 ottobre 2014

I poeti provenzali: Rap medievistico

Ci passiamo tutti, prima o poi. È quel momento della vita in cui non ci si sente più piccoli ma nemmeno grandi, in cui si vive un profondo disagio, in cui si cerca la propria indipendenza, in cui ci si chiede quale sia il nostro posto nel mondo e in cui si affrontano le proprie fragilità.
No, non sto parlando della pubertà, ma di quella landa desolata che va dai 30 ai 35 anni. Come avrete capito, quest’età ha molto in comune con l’adolescenza. Compresi i cambiamenti fisici. Una sera ti addormenti sentendoti come Marty McFly in Ritorno al futuro, la mattina ti svegli e ti senti come Doc. Sempre in Ritorno al futuro
Inizia tutto in bagno: sei lì che ti sei appena ripreso da una serata scasso (nel mio gergo significa guardare tutte le stagioni di Scrubs in una sola botta abboffandoti di saccottini al cioccolato innaffiati da latte e menta) e, passando davanti allo specchio, noti un particolare che solo tu, tre volte campione condominiale di Aguzzate la vista sulla Settimana Enigmistica, potevi notare: il tuo primo capello bianco! La prima reazione è una forte tachicardia accompagnata da una un goccia di sudore freddo che corre lungo la schiena, poi cominci a respirare come se ti si fossero rotte le acque e infine inizi a cercare altri segni del declino, nella vana speranza di non trovarne. Ma il destino è beffardo e te le fa scorgere quasi subito, sono lì, proprio vicino agli occhi: le zampe di gallina. In realtà non saranno più di una o due, ma sei talmente agitato che ti sembra ti sia passato sulla faccia tutto l’allevamento di Francesco Amadori. Preso dallo sconforto, a quel punto cadi in ginocchio e, alzando le braccia al cielo come nella locandina di Platoon, urli a squarciagola: «Perché? Perché proprio a me?».

Tale reazione è dovuta al fatto che noi siamo una generazione particolare, che non ha conosciuto né la guerra né le grandi manifestazioni di piazza: per noi la libertà mica era fare l’InterRail e visitare mezza Europa; non era partire per il Chiapas e lottare a fianco degli indios messicani; no, per noi la libertà era trovare un lavoro per comprare al supermercato tutti i pacchi di Girelle che volevamo (cosa che effettivamente dà grandi soddisfazioni). 
Ora, ci sono due categorie di persone che affrontano questa situazione di indicibile disperazione con approcci totalmente differenti:
  1. Il Nonno di Heidi: è il/la tipo/a tutto d’un pezzo che prende atto della cosa e si avvia verso una maturità luminosa passando, senza soluzione di continuità, da giocare con la casa di Barbie allo stipulare un mutuo di 75 anni che pagheranno i discendenti fino alla XVIII generazione, stile maledizione Azteca
  2. Gigi la trottola: è il/la tipo/a che ha visibilmente salutato l’adolescenza da decenni ma si ostina a usare un abbigliamento e uno slang giovanile, provocando non poco imbarazzo a parenti e amici

Ma vediamo nel dettaglio.




Personalmente combatto la mia crociata contro il tempo (sì, sono un Gigi la trottola) cercando di tenermi aggiornato sulle novità musicali e in particolar modo sulla scena rap, che ultimamente sta dando grandi soddisfazioni. Premetto che il genere non mi ha mai affascinato particolarmente (sono fermo a Eminem, 99 Posse e Caparezza) ma mi sono dovuto ricredere su alcuni luoghi comuni del rap. Credevate che questo genere trattasse tematiche sociali? Che si occupasse degli emarginati? Che muovesse severe critiche alla società contemporanea?
Niente di tutto questo: l’occupazione principale del rapper è spalare badilate di materiale biologico sugli altri rapper in appositi contesti chiamati dissing. Giusto per farvi capire a che livello siamo:

Tu invece Fibra sei di una noia mortale (Tormento su Fabri Fibra)
Mi sta sul c… Grido, i Gemelli, il cugino (Fabri Fibra su Grido, i Gemelli Diversi e sinceramente non so chi sia sto cugino, ma dubito che si riferisse ai Cugini di campagna)
L’oscar della rima scontata però lo merita il rapper Kaos che a proposito di J Ax dice:
Sei pesante come Dante

Praticamente l’80% delle canzoni rap sono delle riunioni di condominio messe in rima. Cioè, se devo pagare 23 euro per un disco in cui devo ascoltare gente che si lamenta di come i colleghi e i vicini si comportano, a sto punto vado a casa di mia nonna che per lo meno è gratis e il pranzo è compreso.

Il bello di tutta sta storia è che i rapper si sentono veramente originali ad insultarsi in rima nei dissing, peccato però che qualcosa di molto simile (e pure parecchio più scurrile) è stata inventata un po’ di secoli fa: dai poeti provenzali.

La Provenza è una ridente regione nel sud della Francia nota al grande pubblico soprattutto per il sapone di Marsiglia che, puntualmente, chiunque ci sia stato in vacanza ti porta come souvenir assicurandoti che ci puoi fare tutto, ma proprio tutto: da lavarci i piatti a farti il bidet. Contravvenendo a qualsiasi regola sul pH.
Prima però che questa regione fosse invasa da orde di igienisti, nel Medioevo vi si potevano trovare decine e decine di castelli appartenenti ai signori locali. Che facevano questi signorotti oltre a lavarsi dalla mattina alla sera? 
Se quando la linea ADSL cade per appena 5 minuti vi sentite tagliati fuori a mondo, vi viene il latte alle ginocchia e siete pervasi da improvvise manie autolesionistiche peggio di un emo, immaginate cosa poteva essere stare isolato in un castello sulle montagne per 12 mesi a guardare sempre lo stesso arazzo (no, non è un eufemismo).
Per cui i signori provenzali si inventano un bel passatempo: in primavera e in estate si fanno la guerra fra loro. E le cose più o meno dovevano andare così:

«Pronto?»
«Ciao Amilcare, sono Venceslao»
«Carissimo, dimmi pure»
«Senti, visto che ancora devono inventare il paintball e mi è scaduta la tessera di Mediaset Premium, ti va se sabato ci incontriamo per farci la guerra?»
«Guarda, sabato sono a cena da mia suocera, ma domenica per me va benissimo»
«Ok. Perfetto. A domenica allora»
«A domenica. Un bacione»

Così, per sei mesi all’anno se le davano di santa ragione con il sorriso sulle labbra, con grande soddisfazione non solo degli uomini, ma soprattutto delle donne, contentissime di tenere fuori dal castello un branco di pirla che si pigliavano a colpi di spada dalla mattina alla sera.
I problemi seri però iniziavano nella seconda parte dell’anno, quando le giornate si accorciavano e le temperature diventavano più rigide. Aveva voglia la signora del castello a dire al marito: «Ma perché non vai a giocare un po’ fuori con i tuoi amichetti, anche se fa buio presto un morticino ci scappa sempre, no?». Niente, quello non si schiodava dalla sedia.
Ed è qui che entrano in scena i nostri eroi: i poeti provenzali. 

Innanzitutto chiariamo che il nome “professionale” dei poeti provenzali era trovatori, una parola che deriva dal provenzale trobar cioè “poetare”.
I trovatori sono i professionisti dell’intrattenimento medievale, visto che per tutto l’inverno, tutti i giorni dovevano inventarsi qualcosa di nuovo per allietare i signori del castello e la loro corte. E tutto questo senza intervistare la cognata della moglie del cugino dell’assassino che però si proclama innocente nonostante trentasei testimoni e le tracce di DNA.
Sebbene nell’immaginario collettivo siano visti come una sorta di giullari e simpatici nullafacenti, i trovatori in realtà provenivano dalle classi sociali più disparate: fra loro potevi trovare quello che effettivamente lo faceva per pagare le bollette (in senso figurato), ma c’era pure il nobile, ossia il figlio di papà che si sentiva artista e voleva esprimere il suo estro (ogni epoca ha avuto i suoi Povia). E non era rarissimo trovare fra loro anche delle donne, le trobairiz.

La prima cosa che ci insegnano a scuola riguardo i poeti provenzali, oltre al fatto che scrivessero quasi esclusivamente in lingua d’oc, è che, a differenza di quelli della scuola siciliana, avevano una certa libertà nel trattare tematiche politiche. Le cose però sono un ciccinino più complicate: i poeti siciliani erano tutti funzionari di corte dell’imperatore, ossia la massima carica politica dell’epoca, vale a dire che sopra di lui non c’era nessuno; i trovatori invece non sono dipendenti statali, sono un po’ gli animatori del villaggio, oggi sono al servizio di un signore ma domani potrebbero benissimo cambiare castello e questo consente loro una maggiore libertà di espressione, sparlando un po’ di tutto e tutti (imperatore compreso). Insomma i trovatori parlano di politica non perché hanno maggiore libertà intellettuale, quanto perché, in effetti, non gliene fregava niente e non si lasciavano sfuggire l’occasione di fare qualche battutina sul signore vicino o sull’imperatore stesso.

A parte la politica, i componimenti dei trovatori trattano anche altri argomenti come il ciclo bretone (Re Artù e la ricerca del Santo Graal, molto prima che se ne occupasse Indiana Jones) e quello carolingio (le avventure dei paladini di Carlo Magno), tuttavia dove davano il massimo era sull’argomento amore.
Per capire appieno questo argomento è necessario parlare dell’amor cortese.

Il concetto di amore inteso dai trovatori è abbastanza differente dal nostro: siete dei romanticoni cresciuti a Una mamma per amica e romanzi Harmony credendo che lasciare bigliettini sul parabrezza dell’auto della ragazza che vi piace fosse un gesto carino, ma tutto quello che avete ottenuto è una denuncia per molestie e un’ordinanza restrittiva del tribunale? Bene, i poeti provenzali stavano messi molto peggio di voi.
L’amor cortese infatti si basava su pochi e semplici concetti:
  • Il servitium amoris: la completa e totale dedizione all’amata e soprattutto ad Amore, inteso come una sorta di entità astratta, una facoltà capace di innalzare l’animo umano (non è che ci volesse molto, stiamo parlando di un’epoca in cui il massimo del bon ton era un rutto a fine pasto)
  • Il culto della donna: vista come un essere al limite del trascendentale, concetto poi ripreso anche dal Dolce stil novo
  • Assenza di pari opportunità: l’uomo sempre è inferiore alla donna, anche se si tratta di un ibrido fra Vanna Marchi e Daniela Santanchè
  • L’amore fedifrago: la donna amata è sempre sposata e il marito è pure contento perché…
  • Non si quaglia mai: il trovatore non fa mai vedere la sua “collezione di farfalle” alla donna amata
  • La religione: il poeta vive in un continuo stato di tormento perché è consapevole che il suo amore è in pieno contrasto con la religione cattolica (ricordiamo che siamo in pieno Basso Medioevo)

In pratica l’amor cortese è la versione medievale della Regola dell’amico degli 883.

Il trovatore, una volta timbrato il cartellino e preso servizio nel castello, si sceglieva una Domina, cioè una donna che fosse sua musa e protettrice. Come abbiamo detto, requisito indispensabile per essere una domina era essere sposata, in modo da giustificare l’amore struggente e insoddisfatto del trovatore che gli dava quella perenne espressione da ulcera gastro-duodenale.
Sebbene per il marito della domina fosse lusinghiero che sua moglie fosse oggetto dei componimenti di un poeta, c’è da dire che comunque il trovatore non si poteva certo permettere di scrivere: «Oh moglie di Gigi, con te farei certi numeri che nemmeno all’ISTAT», per cui cercava di celare l’oggetto del suo desiderio modificando il nome, ma talvolta anche l’aspetto fisico, ragion per cui nelle poesie provenzali troviamo una sfilza di donne bionde e con gli occhi chiari che manco in Svezia. Altro artificio usato dai trovatori per non farsi sgamare era quello di usare una particolare tecnica poetica: il trobar clus, che consisteva nel parlare per allegorie e metafore difficilmente comprensibili. Inutile dire che tutta sta manfrina era solo una scusa per dimostrare agli altri trovatori quanto si era bravi a padroneggiare un modo di poetare così ostico.
Tra l’altro il trobar clus è all’origine di un grosso equivoco. Il fatto che questi poeti parlassero per metafore non sempre chiarissime ha fatto nascere la convinzione che esistesse una sorta di “lingua segreta” che serviva per celare misteri esoterici e che il servitium amoris fosse una specie di culto pagano. E poi è questo blog che non parla seriamente di Letteratura.

«Fammi capire: questi si innamoravano di una donna sposata; non dormivano la notte per il rimorso verso la religione; non concludevano mai e forse forse ste poesie servivano solo per farsi belli agli occhi degli altri poeti?», direte voi a questo punto. Non proprio.
Ogni tanto i trovatori (e anche le trobairiz) qualche risultato lo portavano a casa, cioè dimenticavano tutte le questioni etico-religiose e ci si metteva più o meno su questo livello:




Non mi credete? Allora beccatevi una perla di Daude de Pradas, scritta evidentemente in un momento in cui il ragazzo era veramente in crisi:

non faccia discussioni [la donna]
quando si toglie blusa e gonna, 
ma ch'ella danzi giusta musica 
di chi non bada che d'amore 
s'evitin giochi più golosi: 
e s'ella più ne avesse appresi, 
nell'ammaestrare che non esiti!

E vi risparmio di citare altri componimenti in cui il trovatore riesce finalmente ad entrare nella camera da letto della domina: stiamo parlando di cose che al confronto il «biscottone inzupposo» di Banderas sembra roba innocente…

Ma veniamo alla questione centrale di questo post: che c’entrano i poeti provenzali con i rapper moderni? Molto più di quello che immaginate.
Abbiamo detto che i rapper si prendono a pesci in faccia con i dissing, ebbene i poeti provenzali facevano la stessa identica cosa, solo che le chiamavano tenzoni.
La tenzone era un tipo di componimento in cui due o più trovatori discutevano di argomenti più disparati: religione, etica, filosofia, poesia e via dicendo. La più antica è quella fra Ugo Catola e Marcabruno che si misero a discutere sulla natura dell’amore (non essendoci ancora il campionato di calcio non potevano discutere per 6 mesi di nobili argomenti tipo: «era o non era rigore?»). Detta così sembra una cosa civile, ma, come ogni discussione che si rispetti, presto le cose sono degenerate e in alcuni casi sono diventate tutto un: «Tu hai mi hai copiato», «E tu non sai scrivere», «Ti puzza l’alito», fino ad arrivare agli insulti sulle madri e le sorelle. E questi sarebbero i grandi poeti della tradizione.

Solitamente quando si parla di tenzone non si può citare quella celeberrima fra Dante Alighieri e Forese Donati. E infatti non la citerò. Tuttavia, giusto per farvi avere un’idea, vi riporto la tenzone fra Cecco Angiolieri e Dante Alighieri, purtroppo del Sommo non ci sono pervenute le risposte ma, parliamoci chiaro, nella Commedia si è tolto parecchi sassolini dalle scarpe, quindi ha poco da lamentarsi sulla par condicio


Dante Alighier, s’i’ so bon begolardo,
tu mi tien’ bene la lancia a le reni,
s’eo desno con altrui, e tu vi ceni;
s’eo mordo ’l grasso, tu ne sugi ’l lardo;

s’eo cimo ’l panno, e tu vi freghi ’l cardo:
s’eo so discorso, e tu poco raffreni;
s’eo gentileggio, e tu misser t’avveni;
s’eo so fatto romano, e tu lombardo.

Sì che, laudato Deo, rimproverare
poco pò l’uno l’altro di noi due:
sventura o poco senno cel fa fare.

E se di questo vòi dicere piùe,
Dante Alighier, i’ t’averò a stancare;
ch’eo so lo pungiglion, e tu se’ ’l bue.


Se il massimo dell’insulto per Fabri Fibra è «Mi stai sul c…», qui Cecco dice a Dante che, nell’ordine, è un: approfittatore, accattone, avido, maldicente, pezzente, rinnegato. Insomma, i dissing dei rapper, in confronto alle tenzoni, sembrano scritti dagli sceneggiatori di Pingu.
Altro punto di vantaggio dei trovatori sui rapper è che i primi non iniziano i loro componimenti sempre con «Yo, yo».

Molto ci sarebbe ancora da scrivere sulla poesia provenzale e sull’amore cortese, come il trobar ric, il sirventese e tutti i tipi di composizioni di questo tipo di poetica. Tuttavia, proprio perché vi voglio bene, è meglio finirla qui. Mi basta solo che, se proprio avete voglia di sentire delle parolacce, vi mettiate a cercare su Google Peire Vidal invece di ascoltare Emis Killa. 
Adesso però devo proprio andare, anche perché mi chiude il supermercato e ho finito le Girelle.


venerdì 5 settembre 2014

Le Ultime lettere di Jacopo Ortis: «Maestra, Foscolo copia!»


Ma quant’è bella l’estate? Il profumo dei fiori, la natura che prorompe da ogni dove, il risvegliarsi degli esseri viventi più belli del creato: il dolce usignolo, il goffo riccio, le mosche, i tafani, le zanzare, i giornalisti che dicono agli anziani di andare ai centri commerciali perché lì c’è l’aria condizionata, gli stati di gente su Facebook che d’inverno scrive «Ma che palle sto freddo! Estate mi manki!» e d’estate «Uffa, sto caldo ma quando viene inverno?», il Meteo.it di Tgcom.

Il Meteo.it Tgcom merita una piccola digressione fra le cose più fastidiose dell’estate (a parte lo sfregamento dell’interno coscia quando si ritorna dalla spiaggia, grazie al quale l’industria del borotalco in questa stagione è seconda solo a quella della coca a Ibiza).
Per chi non avesse mai avuto la fortuna di vedere il Meteo.it Tgcom, farò qui un piccolo riassunto:
sullo schermo appare il/la meteorologo/a che col ditino indica la parte settentrionale dell’Italia dicendo: «A Torino si registra tempo sereno, a Milano alcune nubi provenienti dall’Europa settentrionale provocheranno lievi precipitazioni, a Venezia il cielo sarà sgombro di nubi…»; appena però il ditino si sposta appena sotto la riva meridionale del Po: «Per quanto riguarda il Mezzogiorno, tempo variabile» descrivendo ampi cerchi che vanno da Bologna al Mozambico. Il che potrebbe anche essere una scelta editoriale del tipo: «I nostri spettatori vivono per lo più al nord». Peccato però che per tutta la durata dei mesi di luglio e agosto ci abbiano veramente liofilizzato la zona meridionale del corpo tenendoci aggiornati sulla situazione meteorologica di amene località quali: la Papuasia, la Melanesia o la Micronesia Olandese.
Ora, dico io, che è sta Micronesia Olandese? Ma che ce ne frega se in Micronesia Olandese piove? Nemmeno gli abitanti della Micronesia Olandese sanno di vivere nella Micronesia Olandese!
Fine della digressione meteorologica.

Tuttavia fra tutti gli esseri che si risvegliano in estate ce n’è uno che merita la nostra attenzione: il Beatote. Ogni famiglia, comitiva, oratorio, scuola di cucito, gruppo fondamentalista religioso, ha almeno un esemplare di beatote, nel mio caso, per esempio, è una zia. La caratteristica principale del beatote è un malato ottimismo che si manifesta con frasi del tipo:

«Hai bucato una gomma? Beatote, io ho sfasciato la macchina»

«Ti si è scotta la pasta? Beatote, io sto da una settimana digiuna»

«Hai un po’ di tosse? Beatote, io c’ho la peste bubbonica, anzi vado che c’è un monatto che mi aspetta di sotto»

E via di seguito.

Come dicevamo però, è in estate che il beatote dà veramente il massimo: tu sei lì, che hai sfacchinato per tutto l’inverno a dare ripetizioni a un ragazzino che fino a giugno ha tentato di farti le macumbe su una bambolina che stranamente riproduceva le tue fattezze, ogni volta felice di vederti come una galeone spagnolo carico di schiavi africani, per permetterti di comprare un biglietto aereo (posto stiva, rigorosamente non pressurizzato) che ti porterà per due giorni in un ostello a Londra, dove dividerai il letto a castello con un turista austriaco che non lava i calzini da prima che cominciasse la deriva dei continenti.
Ebbene il giorno prima di partire il beatote, di ritorno da una crociera ai Caraibi costata quanto il prodotto interno lordo del Liechtenstein, si presenta a casa tua con ancora le infradito ai piedi e, con una faccia di una a cui è appena stata asportata l’appendicite senza anestesia, ti dice: «Beatote che vai a Londra, noi ci siamo proprio stressati sulla nave». Mettendo a dura prova la tua capacità di inventare nuovi e frizzanti vituperi in direzione sua e di tutti i suoi defunti (che, sfortunatamente, nel mio caso sono pure miei).

Nonostante i notori progressi della scienza moderna come la particella ultra assorbente dei salvaslip della Lines (embè? Mo vuoi vedere che il problema degli scienziati è l’ebola?), il mondo accademico non ha ancora trovato una soluzione definitiva alla piaga dei beatote (anche se un cric di acciaio inossidabile aiuta sempre). 
Tuttavia, amici miei, non dovete disperare: come disse quello che aveva comprato un CD dei Dear Jack perché aveva letto che hanno venduto più di un milione di copie: «Mal comune, mezzo gaudio». Già, perché i beatote hanno fatto la loro comparsa sulla Terra alcuni secoli fa e ne troviamo traccia anche nella Letteratura e più precisamente nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis.

Le Ultime lettere di Jacopo Ortis è il primo esempio di romanzo epistolare della Letteratura italiana, pubblicato per la prima volta nel 1802 da quel basettone di Ugo Foscolo. A scuola Ugo Foscolo è conosciuto soprattutto per le pazze risate che ci fa fare con i suoi versi come: illacrimata sepoltura (A Zacinto), l’ossa mie rendete/allora al petto della madre mesta (In morte del fratello Giovanni), né le città fur meste/d’effigiati scheletri (Dei sepolcri). Insomma, dalla poetica di Foscolo ci possiamo ricavare agevolmente uno di quei film che nei pomeriggi natalizi danno su Canale 5 o, in alternativa, tutta la filmografia di Tarantino.
Ma ritorniamo all’argomento principale.

Come dicevamo, le Ultime lettere di Jacopo Ortis è un romanzo epistolare, cioè scritto sotto forma di lettere che il protagonista manda ad un suo amico, Lorenzo Alderani. Quello epistolare era un genere che nell’Ottocento andava molto di moda e che sarebbe interessante vedere cosa ne verrebbe fuori al giorno d’oggi su Whatsapp.





Per mia nonna che non conosce la prosa cruda del XIX secolo: un limone è una pomiciata di una certa intensità.
Ma andiamo avanti…


Jacopo è uno studente universitario deluso dalla politica di Napoleone che, inaugurando una lunghissima tradizione di politici nostrani, ha deciso di svendere il Paese per un pezzo di pane e per questo il giovane decide di ritirarsi sui Colli Euganei, nei pressi di Padova. Qui Jacopo, che già di suo è allegro come una canzone dei Modà, sembra ritrovare un po’ di pace leggendo i classici latini se non che conosce un certo signor T. e la sua dolce famigliola costituita dalle figlie Isabellina e Teresa e dal futuro marito di quest’ultima, Odoardo. 
Foscolo qui dimentica completamente di essere un grande scrittore e, manco si trattasse di un romanzo di Nicholas Sparks, fa innamorare follemente Jacopo di Teresa, quindi per diverse decine di lettere ci sembra di sentire la colonna sonora de Il tempo delle mele mentre leggiamo di sagre di paese a cui i due partecipano arrostendo salsicce di cinghiale mano nella mano, vanno a fare scampagnate nel paese di Petrarca, aiutano la forestale a trapiantare alcuni pini su una collina… tutto questo mentre Odoardo si chiede cosa siano quelle strane escrescenze sulla testa che da un po’ di tempo gli impediscono di attraversare le porte.

Durante una di queste gite Teresa gli confessa di non amare il suo promesso sposo e perciò cosa fa il nostro Jacopo? Scappa con lei in segreto e si sposano a Las Vegas? Affronta Odoardo in un duello all’ultimo sangue con le spade laser sulla Morte Nera? Anticipa Manzoni e va dal padre della ragazza dicendo: «Questo matrimonio non s’ha da fare?». Niente di tutto questo: con una mossa a sorpresa la molla e se ne ritorna all’università (evidentemente all’epoca la laurea non era solo un elegante complemento d’arredo). Qui frequenta la bella società cittadina, ha delle piccole avventure con delle donzelle, frequenta i colleghi di università ma non è felice, il suo pensiero sta sempre lì (a Teresa, che avete capito?). Per questo motivo dopo soli due mesi di corsi decide di tornare ai Colli Euganei per rivedere la sua amata che, per l’unica volta in tutto il romanzo, lo bacerà.

«Vabbè, adesso scapperanno insieme» direte voi. Ma ormai a questo punto del romanzo abbiamo capito che Jacopo ha veramente pochino in comune con Vin Diesel, anzi il ragazzo somiglia più a Steve Buscemi, infatti si ammala e non trova di meglio da fare che confessare il suo amore al padre della ragazza che ovviamente dopo questa rivelazione vorrebbe sminuzzarlo in un robot da cucina. Una volta ripresosi «…scappa con Teresa!». 
Noooooooone! Jacopo si toglie il pigiama e comincia una specie di giro d’Italia, visita Bologna; Firenze, dove fa una capatina a Santa Croce per dare il suo saluto ai grandi; e soprattutto Milano. Nella città lombarda avviene il famoso colloquio con Parini, che per il ragazzo è un idolo assoluto, un Vasco Rossi senza problemi di disintossicazione. A parte l’assoluta mancanza di verosimiglianza (non è che se domani mi imbarco e parto per Bologna ho molte probabilità di parlare con Enrico Brizzi), queste pagine ci rivelano davvero il carattere del giovane Jacopo (e sotto sotto pure di Foscolo). Lo studente è veramente sdegnato per la situazione politica, per come l’Italia sia stata trattata come moneta di scambio fra due potenze straniere e auspica una rivoluzione che metta tutto a ferro e fuoco. Parini (che incarna l’altra anima di Foscolo, quella più matura) smorza subito il suo entusiasmo e gli ricorda gli esiti infausti della Rivoluzione francese, poi, visto che il ragazzo ha già un’autostima invidiabile, gli fa un discorsetto che parafrasato suona così: «Bello dello zio, tu non hai una lira e non sei nessuno. Veramente credi che i ricchi non sappiano come comportarsi in caso di rivoluzione? Quelli lo sanno meglio di te e ti sfrutteranno per ricavare il maggior vantaggio possibile dalla situazione».

Dopo aver raccolto le braccia che gli sono cadute successivamente al colloquio con Parini, Jacopo riprende il suo peregrinare per l’Italia ma alla fine decide di tornare di nuovo sui Colli Euganei dove scopre che Teresa si è sposata con Odoardo (e certo, se aspettava Jacopo…). Vinto dal dolore scrive a Teresa e, per l’ultima volta, anche al suo amico Lorenzo prima di suicidarsi con una pugnalata al cuore.

E questo era il romanzo, ma è diamo un’occhiatina a quello che è successo nel backstage.
Subito dopo la pubblicazione delle Ultime lettere di Jacopo Ortis qualche malpensante ha ravvisato delle somiglianze fra l’opera di Foscolo e I dolori del giovane Werther di Gothe. Sarà che entrambi sono romanzi epistolari? Sarà che abbiamo solo le lettere di Jacopo e di Werther ma non abbiamo le risposte dei loro amici? Sarà che i protagonisti sono due giovani che decidono di ritirarsi in campagna per dedicarsi alla Letteratura? Sarà che entrambi si innamorano di una ragazza già promessa in sposa ad un altro uomo? Sarà che a un certo punto del romanzo tutti e due lasciano il paesino per andare in città? Sarà che i romanzi finiscono con il suicidio?
Embè? Uno trova 180/190 somiglianze e subito pensa al plagio!

Tali accuse portarono Foscolo a scrivere una postfazione alla seconda edizione del romanzo, del 1804, in cui si difendeva dalle accuse di emulazione (prima si diceva così) dicendo che si era ispirato alla storia di un amico, anche se in realtà non conobbe mai Girolamo Ortis, uno studente che si suicidò e da cui lo scrittore prese in prestito il cognome per Jacopo. Hai capito che paravento, Foscolo?

Momento curiosità da giocarsi se durante gli esami/interrogazioni siete in difficoltà: dopo la pubblicazione della prima edizione ci fu un’ondata di suicidi per emulazione. Ebbene, nella postfazione del 1804 lo scrittore dovette precisare che il suo personaggio era un debole, esortando i giovani a non imitarlo. Oggi una postfazione del genere starebbe bene pure sul retro di tutti i dischi di Fedez.

A dire il vero Foscolo da Goethe ha preso anche un po’ di più di qualche spunto, tuttavia bisogna dire che, nonostante la storia sia pressoché identica, cambia l’impostazione di base: il Werther è un romanzo che si inserisce pienamente del Romanticismo, dentro vi troviamo il “mito del buon selvaggio”, una sorta di compiacimento della propria sofferenza, la vicenda amorosa è al centro di tutta la situazione, invece l’aspetto politico compare solo marginalmente. Nell’Ortis troviamo le stesse identiche tematiche solo che, al contrario, tutto il romanzo è imperniato sulla situazione politica italiana, sulle disillusioni del giovane protagonista e la storia d’amore con Teresa è quasi una scusa, una piccola “spintarella” che Foscolo dà al suo personaggio per spingerlo al suicidio, per giustificare l’atto estremo.
Per questo motivo le Ultime lettere di Jacopo Ortis non è un plagio, ma piuttosto un remake, un Werther in chiave politica e sociale, in cui si approfondiscono tematiche di un certo spessore e che forse lo rendono addirittura migliore dell’originale.
Ovviamente ciò non toglie che Jacopo Ortis per il suo tono costantemente lamentoso non avrebbe meritato di essere preso a cric sui denti per essere il progenitore di tutti i beatote attualmente presenti sul pianeta. Inclusa mia zia.

P.S.
Da notare che in tutto il post ho evitato sapientemente la battuta:
«Sai quali sono le Ultime lettere di Jacopo Ortis?»
«…is»