giovedì 8 maggio 2014

Il Verismo: il reality delle cinghiate

Non più di un paio di settimane fa stavo prenotando al Billionaire per festeggiare le 10.000 visite su questo blog. Avevo già spedito gli inviti ai personaggi più autorevoli del mondo culturale: Tullio De Mauro, Francesco Sabatini, Corrado Augias, Luciano De Crescenzo, Noam Chomsky, Umberto Eco, Evgenij Evtušenko… , ma anche ai rappresentanti del giornalismo d’inchiesta, quelli che non le mandano certo a dire, quelli che ci mettono la faccia come l’inviato dalla voce inquietante di Chi l’ha visto?, Brumotti, il Gabibbo e la giornalista del TG5 che si occupa di cinema, quella che lavora solo tre volte all’anno, per capirci: quando c’è il festival di Cannes, il Leone d’oro e gli Oscar, gli unici tre concorsi cinematografici che conosce.
Mi ero appena messo nel lettino abbracciato al mio peluche di Moravia (è uguale a un normalissimo orsacchiotto, ma ti guarda incazzatissimo), e stavo beatamente immaginando la faccia di Umberto Eco mentre Brumotti gli urla nelle orecchie «A bombaaaaaazza!!!», quando improvvisamente squilla il cellulare.

«Pronto?» 
«Ci hai messo un anno e mezzo per fare 10.000 visite, noi le facciamo in un quarto d’ora. Precisamente fra 14:50 e le 15:05 di un qualsiasi Ferragosto»
Clic.

Solo una persona poteva chiamarmi nel cuore della notte per prendermi in giro: Casaleggio.
Ovviamente ho cominciato a pormi un sacco di domande: come fa Casaleggio ad avere il mio numero? Come faceva a sapere del Billionaire? Quale oscura macchinazione si cela dietro questa chiamata? Non c’ha niente da fare la notte invece di chiamarmi? Che balsamo usa per avere quei ricci sempre così vaporosi?
Tuttavia la questione che mi assillava di più era di ordine generale: esiste davvero la democrazia in internet?

Per riuscire a risolvere la situazione (e finalmente prendere sonno) mi è venuta in mente una frase che ho letto in un saggio sul filosofo John Locke (ma adesso che ci penso potrebbe essere che l’ho vista su uno dei bigliettini dei Baci perugina): «Un albero che cade in una foresta fa rumore, se nessuno lo sente?». Certo, se lo chiedete al bradipo che vi si stava arrampicando riceverete in risposta una serie di inequivocabili gesti che vi faranno capire la sua opinione in merito, ma se non vi trovate nel Borneo capite che la situazione è seria.
Prendete questo blog, un bella mattina mi sono svegliato e ho deciso di scrivere e come me può farlo chiunque: c’è chi parla di cucina, chi di oggetti fatti a mano, chi di fumetti, chi di film… «E allora? Internet è uno strumento democratico». D’accordo, ma quanti blog possono dire di avere più lettori dei telespettatori di una lezione di fisica quantistica alle 4 di mattina su Rai Nettuno?
Come vedete siamo ritornati all’albero: posso dire tutto quello che voglio, ma, se non mi ascolta nessuno, che lo dico a fare?
E allora come la mettiamo? Internet è tutto un bluff? Se non ti fai pubblicità non sei nessuno? È caduto l’ultimo baluardo della democrazia occidentale dopo l’abolizione della giuria demoscopica di Sanremo?

Non dobbiamo disperare, perché se da un lato i blog si sono rivelati una mezza bufala, dall’altro sono emersi strumenti ancora più democratici, con cui il cittadino comune, l’uomo della strada (nel senso che è disoccupato e passa tutto il giorno in giro per il paese) può far sentire la sua voce: la petizione online.

Se non vi è mai capitato di firmare una petizione online non potete capire in quale abisso di spam e richieste moralmente e mentalmente discutibili si cacci chi decide di cliccarci su.
Tutto succede per caso. Un giorno stai lì che ti guardi il tuo bel video con i gattini (da una stima fatta da Apple tra dieci anni supereranno il numero di video porno) e all’improvviso ti arriva su Facebook un messaggio di Gesualdo Scatarroni

«Ciao, ho firmato questa petizione. Dai anche tu una mano a questa importante causa»

Nonostante tu sia un tipo molto impegnato nel sociale, di primo acchito l’unica cosa che ti interessa non è tanto dare una mano alla causa, quanto capire chi cacchio è sto Gesualdo Scatarroni. Dopo aver effettuato una ricerca con dati incrociati (spolverando vecchie foto di scuola, interrogando amici di amici, mettendo sotto torchio tua nonna), scopri che tal Scatarroni è stato per due settimane tuo compagno in prima elementare: prima di trasferirsi con tutta la famiglia nella Guinea Francese. 
Qui emerge il famoso effetto Balla coi lupi che prende il nome dal celeberrimo film scritto, diretto e interpretato magistralmente da Kevin Costner che, per quasi quattro ore, cerca di farsi accettare dagli indiani ma alla fine la morale è: «Vabbè, ci hai provato, ma anche se ti vogliamo bene ricordati che sei sempre un cafoncello americano convinto che la cucina italiana sia limitarsi ad aprire una scatoletta di tonno».
Nel senso che per quanto si possa essere smaliziati non si arriverà mai al livello dei nativi digitali, per cui clicchi sul link inviato da Scatarroni non sospettando minimamente che si tratti di un messaggio automatico. 
Vi ricordate i bei tempi dell’attivismo sociale in cui prima ci si informava sulla causa e poi si passavano dalle sedici alle diciotto ore a fermare centinaia di passanti per raccogliere tre firme? Ecco, adesso la tecnologia ci viene incontro, ma con alcuni inconvenienti che andrò qui ad elencare:
  1.  L’attivista da tastiera si indigna per qualsiasi cosa: dalla caccia alla foca monaca agli 89 centesimi annuali di Whatsapp
  2. Ha una tastiera difettosa, lo si capisce del COSTANTE USO DEL CAPS LOCK e dall’enorme quantità di punti esclamativi quando fa un’affermazione e interrogativi quando porge una domanda (che è quasi sempre retorica)
  3. Si spaccia per grande esperto di tecnologie, solitamente dice di aver fatto parte di Anonymus ma ne è uscito «perché avevano una linea troppo morbida». In realtà non è capace di distinguere un MP3 da un 33 giri di Bobby Solo

«MA ALLORA SEI RETROGRADO E REAZIONARIO!!!!!!!!!!!!!!!!11!!!!!!». NO… cioè no, il fatto è che spesso e volentieri l’attivista da tastiera non ha la minima idea di come funzioni il sistema delle petizioni. 
Come sanno anche nei peggiori bar di Caracas, la parola petizione deriva dal latino pĕtĕre, vale a dire chiedere per ottenere. Ora, questa cosa presuppone che ci sia qualcuno a cui mandare ste benedette firme, no? Per cui se sono contrario alla caccia alle balene le mando al governo giapponese; se non voglio che ci siano più bambini soldato le manderò all’ONU. Ma se mi danno fastidio il punteruolo rosso, i gerani alle finestre degli anziani, le ruote dei carrelli della spesa che non vanno mai nella stessa direzione, le persone che si ostinano a farsi il riporto invece di radersi i capelli, aspettare due ore per fare il bagno dopo mangiato, il tanga leopardato da uomo… a chi mando le firme?
Naturalmente con questo non intendo dire che le petizioni online non servano a niente: il Winner Taco è tornato nei bar, a ricordarci che quando il popolo della rete si muove è capace di far capitolare anche le grandi multinazionali.

A parte la petizione per il Winner Taco (che ho firmato davvero), una delle poche petizioni che firmerei volentieri è quella per abolire i reality. Va bene, lo so che state pensando: «Ecco, il solito atteggiamento finto intellettuale», quindi specifico subito che a me non danno fastidio i reality in quanto tali. Quello che mi provoca un fastidioso rush cutaneo è il comportamento dei partecipanti a queste trasmissioni.
Prendiamo il Grande fratello. A parte il fatto che nessuno dei concorrenti sa chi sia Orwell, mi urtano da morire gli incontri con i parenti. Sì, perché il partecipante tipo ha viaggiato il mondo, è stato sei mesi a Londra; ha lavorato come DJ due anni a Valencia; (sulla carta) parla tre lingue; fa paracadutismo acrobatico; ha il datore di lavoro migliore del mondo, visto che gli permette di stare sei mesi chiuso in una casa con altri dieci decerebrati come lui senza licenziarlo.
Ebbene, nonostante questo curriculum, dopo 15 (quindici!) giorni che sta chiuso in casa, si presenta questa scena:

Conduttrice: «Manolo, noi tutti ti conosciamo per la tua frizzante allegria, ma nella tua vita c’è un angolo oscuro: il tuo rapporto con papà Alcibiade»
Manolo: (grugnito incomprensibile)
C: «Sappiamo che il tuo papà ha un carattere forte, anche se non ti ha mai fatto mancare niente, anche se ti ha fatto studiare, anche se ti ha sempre portato a nuoto, ti ha coperto di regali, hai sentito la sua mancanza. Alcibiade purtroppo non ti è stato sempre vicino perché tutti i giorni, fino alla pensione, dalle sei di mattina alle cinque di pomeriggio si assentava misteriosamente perdendosi i momenti più belli della crescita di suo figlio»
M: (lacrime agli occhi accompagnate da altro grugnito)
C: «Manolo, tuo padre è lì»

Il resto potete immaginarlo: abbracci, pianti e tirate su con il naso che nemmeno a casa mia quando ci arriva una raccomandata e scopriamo che non è di Equitalia.

Ma possiamo affermare che i reality sono un prodotto della nostra società malata che si crogiola nel suo voyeurismo invece di produrre programmi televisivi elaborati andando, al contempo, a ledere il pathos, la tensione drammatica, la mimesis e un sacco di altre parole fighe?

No, non lo è. Se proprio vogliamo andare a ravanare nel torbido, scopriamo che già alla fine dell’Ottocento c’era qualcosa di simile ai nostri reality: il Verismo.

Se, dopo questa affermazione, non avete buttato il PC dalla finestra e dato fuoco ai rottami, seguitemi nel mio ragionamento e vedrete che il Verismo è il reality più crudo che sia mai stato concepito.

Il Verismo è una corrente letteraria nata in Italia nella seconda metà dell’Ottocento. Dato che, come diceva Coso, «Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma», il Verismo si ispira fortemente al Naturalismo francese, il cui principale esponente è Zola (non faccio nessuna battuta sul calciatore sennò sembro troppo obsoleto).
Quando lo si studia a scuola c’è il pericolo di incappare in un equivoco da cui non ci libererà mai più: il Verismo nasce e muore in Sicilia, anche perché ti fanno studiare uno, massimo due autori, cioè Giovanni Verga e Luigi Capuana. E invece è tutto sbagliato, perché questa corrente nasce a Milano, anche se la maggior parte delle opere sono ambientate in Sicilia e in Italia meridionale.
Ma perché il Verismo è il “padre” dei reality?
Come suggerisce il nome, questa corrente letteraria si propone di descrivere il vero, cioè la vita comune delle persone di cui la grande Letteratura non si è mai occupata prima di allora: orfani, minatori, contadini, pescatori, pastori e via dicendo. Questa ricerca del vero si realizza in due modi:
  • Attraverso l’uso del linguaggio che, spesso e volentieri, include parole dialettali
  • Evitando di far esprimere giudizi al narratore

Partiamo dal punto 1. Siete schifati dal linguaggio usato nei reality? Non vi piacciono parolacce, volgarità, mancanza di sensibilità? Allora non potete leggere nessuna opera verista.
Il Verismo non è politically correct, tutt’altro. Per capire meglio di cosa stiamo parlando vediamo un po’ di parole tradotte dal linguaggio verista all’italiano:

Ingenuo = Minchione

Lavoratore = Bestia

Sfortunato = Iettatore

Invalido = Storpio

E ho riportato solo gli esempi più leggeri, insomma, a confronto i dialoghi dei film di Vin Diesel sembrano scritti da Petrarca. 
Tuttavia a nobilitare il Verismo rispetto ai reality (semmai ce ne fosse bisogno) è la funzione di questo linguaggio, cioè mimetizzarsi concretamente con l’ambiente che si sta descrivendo: parliamoci chiaro, se voglio descrivere al massimo della realtà la mia reazione quando qualcuno mi taglia la strada con l’automobile non userò qualcosa del tipo:

«Ohibò, conducente di trabiccolo, immondo frutto di un accoppiamento coatto fra una scrofa e un cinghiale, stavi invero per cozzare contro il mio veicolo. Che possano gli dei donarti miglior vista, affinché tu possa rimirarti ogni giorno della tua esistenza per constatare la tua abiezione»

Quanto piuttosto:

«Guarda sto grandissimo figlio…»

Che poi, dico io, ti ha tagliato la strada? Prenditela con lui! Lascia stare la madre, che già è stata sfortunata ad avere un figlio del genere.



Per quanto riguarda il tema “volgarità e mancanza di tatto”, il Verismo è peggiore di qualsiasi reality attualmente in circolazione. Per dimostrarvelo vi propongo questa poesia di Ulisse Tanganelli, in cui si lamenta della “poca leggiadria” della donna cantata:

No: tu non sei la vergine ideata
Nel lieto immaginar dei sogni miei;
La figurina snella e delicata,
A cui la vita mia consacrerei. 


La grazia ho sempre nell’amor cercata;
E più del corpo l’anima vorrei:
E in te, ce n’è di ciccia una carrata;
Ma invan l’anima tua ricercherei. 


Credilo: amore fino al cor non passa
Cui forma il grasso impermeabil saio;
E più che saio mortuaria cassa. 

Tu mi sfondi perdio letto e solaio:

Io non ti posso amar sei troppo grassa!…
E ti giro senz’altro al macellaio.


Un vero gentleman d’altri tempi! 

E con questo credo di aver esaurito l’argomento linguaggio. Passiamo alla questione narratore. 

Dall’istituzione della scuola italiana fino a stamattina, quando si parla di Verismo la prof, con una voce ispirata, guardando verso il fondo dell’aula come se ci fosse un’apparizione mariana cita Verga: «L’opera d’arte sembrerà essersi fatta da sé», e in effetti è la migliore definizione per il narratore verista.
Per capirci meglio dobbiamo fare un passo indietro di 22 anni, quando mio padre comprò 54 videocassette con i documentari introdotti da Piero Angela. Cosa c’entra col Verismo? Lasciate fare e vi spiego. Io quelle 54 cassette le ho guardate tutte, dalla prima all’ultima, a 8 anni ero il massimo esperto europeo di migrazioni di gnu, eppure c’era una cosa che mi sconvolgeva: come faceva il documentarista a starsene nascosto buono buono mentre l’orso bianco si divorava il cucciolo di foca monaca, i suoi fratelli, la mamma e pure le foche vicine di casa? Bisognava essere senza cuore per documentare la natura?
La risposta non me la sono ancora data, tuttavia ho capito che se si vuole mostrare al pubblico cosa accade realmente in natura non bisogna assolutamente interferire con essa.
In definitiva è quello che fa lo scrittore verista: si limita a raccontare i fatti, senza esprimere giudizi etici o morali, senza entrare nella storia e se il tutto non sembra asettico è solo perché utilizza un linguaggio quanto più vicino ai protagonisti. 
Insomma, Manzoni è il tipo che al cinema commenta ogni singola scena, Verga invece è quello che si mette in ultima fila con i popcorn e fa in continuazione: «Ssshhhh!!!».
Il problema della teoria elaborata da Verga è che lo scrittore non è un documentarista e perciò non può rimanere freddo e distaccato e lasciar fare alla natura, soprattutto perché di mezzo ci sono le sue creature. Lo scrittore siciliano viene meno alla sua regola non in un romanzo, ma in una piccola novella: Rosso malpelo.
La storia la conosciamo tutti, perciò evito di fare inutili riassunti che potrebbero provocarvi il prolasso delle parti molli. Quello che ci interessa è vedere come in definitiva Verga passi la maggior parte del tempo a dire quanto quel ragazzo rosso di capelli si meritasse di essere picchiato dalla madre, dal patrigno, dalla sorella, dagli altri minatori che lavoravano con lui nella cava, dal padrone della miniera e da qualunque altro personaggio lo incontri.
Solitamente questa strana avversione di Verga per malpelo viene spiegata come un voler sottolineare la condizione del ragazzo e far capire al lettore in quale situazione si trovi e qual è il suo rapporto con gli altri. Naturalmente io non sono affatto d’accordo. È vero che la Letteratura è una scienza che va ricondotta a schemi precisi, ma è vero pure che non sempre si può confinare la creatività e l’emotività all’interno dei suddetti schemi. Quindi…
Per come la vedo io, Verga esagera nell’offendere e avvilire malpelo perché gli vuole “troppo bene”, il suo comportamento è simile a quello del ragazzo nei confronti di ranocchio: lo tratta male per prepararlo alla vita e il narratore esaspera volutamente le espressioni di disprezzo per provocare un moto di sdegno e rabbia nel lettore, per far sì che partecipi alla disperazione del protagonista e arrivi quasi ad odiare la voce narrante per la sua durezza.
Ovviamente un qualsiasi formalista russo potrebbe contestare la mia interpretazione, ma dubito che leggano questo blog. Visto che sono tutti morti. 

Se proprio vogliamo trovare una differenza davvero sostanziale fra il Verismo e i vari reality in circolazione la dobbiamo cercare nel finale. Possiamo cercare quanto vogliamo, in nessun romanzo verista alla fine il protagonista vince 500.000 euro. A dire il vero nessuna opera verista finisce bene.
Non mi credete? Mettete in dubbio la mia parola? Allora vi meritate questo megaspoilerone
  • Giacinta (Capuana): si suicida 
  • Rosso malpelo (Verga): muore in miniera 
  • Scurpiddu (Capuana): parte soldato (non si sa se torna) 
  • Canne al vento (Deledda): disgrazie a badilate, alla fine il protagonista muore (sereno, però) 

E ringraziate che mi fermo qui con il necrologio. 

Naturalmente le analogie fra reality e Verismo sono un tantinello forzate (mi rivolgo alle mie prof di lettere) e comunque finiscono qui.
Nei reality il protagonista è quell’uno su mille che ce la fa, che emerge dalla massa. Al contrario, il Verismo è un riflettore puntato proprio su quella massa di ultimi e diseredati (vanno sempre in coppia) di cui nessuno si occupa e che mai emergeranno, perché, parliamoci chiaro, nella vita di operai che diventano padroni della fabbrica se ne vedono pochini. 

Comunque, per la cronaca, non sono più riuscito a prendere sonno: continuavo a immaginarmi Corrado Augias vestito da Capitan Ventosa e con la voce dello speaker di Chi l’ha visto?.