venerdì 18 marzo 2016

Giambattista Marino: Ti regalerò una rosa...

Se c’è una cosa che mi ha insegnato Star Wars, oltre a procurarmi
 delle ustioni di terzo grado simulando dei combattimenti con i tubi
al neon al posto delle spade laser, è che a volte ci sono persone che nascono già con un destino segnato. Hai voglia a combattere con tutte le tue forze per raggiungere uno scopo, spesso la vita ti portadove vuole lei e tu manco te ne accorgi (vabbè, questa mi è uscita un pochettino alla Ligabue ma abbiate pazienza).
Vi faccio un esempio: la domanda tipo che di solito mi viene fatta quando mi presentano amici di amici oppure in occasione di rimpatriate con parenti talmente alla lontana che nemmeno il test del DNA potrebbe dimostrare un’effettiva familiarità è: «Ma com’è che hai scelto di studiare Lettere?». La domanda di per sé sarebbe pure legittima ma di solito viene formulata con un’impercettibile sfumatura che non sfugge a un orecchio avvezzo, per cui se la si registra e poi la si ascolta al contrario come i CD di Marilyn Manson è possibile udire: «A sto punto potevi pure fare il grattatore di Gratta&Vinci professionista, tanto c’hai le stesse probabilità di avere un minimo di stabilità economica».
Ebbene, amici miei, vi dico in verità che due sono le strade che conducono a studiare Lettere:

  1. Un effettivo amore per la Letteratura che può portare a scrivere poemetti a 16 anni come Leopardi e alla perdita di qualsiasi possibilità di accoppiarvi con un essere della vostra stessa specie
  2. Un odio smisurato e irrazionale verso tutto ciò che è anche minimamente accostabile alla matematica, il che solitamente porta a litigare sistematicamente con le cassiere di Auchan perché vi ostinate a voler utilizzare il baratto come metodo di pagamento pur di non dover controllare il resto

Nel 99% dei casi, anche se non lo ammettiamo nemmeno se ci strappate le unghie dei piedi, si diventa cultori della Letteratura per la seconda eventualità.
Per quanto mi riguarda l’avversità nei confronti della matematica ce la tramandiamo di generazione in generazione, come i bolli non pagati della 127 Abarth di nonno.
Tutto iniziò in una giornata autunnale negli anni ’60.

Mio padre all’epoca frequentava la scuola elementare. A quel tempo non si facevano cartelloni da appendere in classe, la cattedra si trovava su una pedana in modo da essere sollevata, le interrogazioni avvenivano rigorosamente in piedi, se ti comportavi male ti pigliavi una bacchettata sulle mani. 
Praticamente una via di mezzo fra Full Metal Jacket e Il trono di spade, solo un pochettino più crudele.
Le cronache raccontano che un bel giorno la maestra diede il classico compito di matematica del tipo: «Due treni A e B partono alla medesima ora da due stazioni poste agli estremi di un lungo rettilineo lungo 435 km. Il primo treno procede a velocità costante a 70 km/h mentre il secondo si muove a 75 km/h. Dopo quanto tempo si incontreranno i due treni? E a che distanza rispetto alla stazione di partenza del treno A?».
Ora, dove possiamo trovare un rettilineo di 435 km e di quali farmaci facesse uso la signora per dare un quesito del genere a dei bambini di scuola elementare è una questione secondaria, concentriamoci piuttosto sulla vicenda principale. 
Ovviamente a me ste cose non riuscivano in quinta liceo, figuriamoci a mio padre che andava in terza elementare, per cui mia nonna, avendo notato il sangue che sgorgava abbastanza copiosamente dalle orecchie del figlio, un po’ per pietà, un po’ perché si era scocciata di pulire il suddetto sangue dal pavimento, gli consigliò di farsi dare una mano da mio nonno, ai tempi assiduo frequentatore del circolo di biliardo dietro casa.
Quaderno alla mano, così mio padre raggiunse il circoletto. Siamo in un quartiere operaio verso la prima metà degli anni ’60, capite bene che quella era gente che dopo una giornata in fabbrica tutto voleva tranne che problemi, soprattutto quelli di matematica; senza contare il fatto che a causa della guerra il titolo di studio più alto nel raggio di 18 km quadrati era: battesimo.
Naturalmente nemmeno mio nonno era in grado di risolvere la questione ed è qui che avvenne il miracolo. Vuoi per noia, vuoi perché era gente dal cuore buono, vuoi perché «oh, meno di vent’anni fa abbiamo cacciato i nazisti a calci prima che arrivassero gli Alleati e mo figurati se mi lascio intimidire da una maestra con evidenti problemi relazionali», fatto sta che attorno al biliardo dove era appoggiato il quaderno si formò un mucchietto di curiosi. Insomma, nel giro di un quarto d’ora scarso le discussioni sulla partita della domenica precedente si erano trasformate in disquisizioni di ordine fisico-teorico che nemmeno nel cortile della Normale di Pisa. 

Quella sera ognuno disse la sua, si fecero ipotesi e schemi con le biglie della carambola, vennero consumate le meningi nonché un discreto numero di mezzi litri di vino bianco, tanto che mio padre si aggiudicò una fornitura di Fiodifragola a vita gentilmente offerta dal proprietario del circolo come segno di riconoscenza per gli incassi di quella sera. Eppure, nonostante il brain storming, dopo ore di accalorate discussioni non si riusciva a venirne fuori. Il fatto che quegli eroi non avessero avuto la possibilità di andare a scuola non significava di certo che mancassero d’ingegno, per cui a qualcuno a un certo punto venne un’idea brillante.
«Chiamiamo mio cognato Peppino!»
Peppino era forse un ingegnere? Un libero docente di fisica applicata alla Sorbona? Il visionario ideatore degli acceleratori di particelle del CERN? 
Nulla di tutto questo. Peppino lavorava per le Ferrovie dello Stato, per la precisione controllore.

Adesso, le cronache raccontano che Peppino all’epoca avesse una figlia che doveva sposarsi, per cui faceva dei turni massacranti di 14-16 ore al giorno per farle il corredo, ragion per cui sul comodino aveva una copia dell’enciclica Porca Pupattiarum di papa Leone IX, il che gli garantiva l’indulgenza plenaria, anche nel caso avesse bestemmiato tutti i santi del calendario in aramaico, nel caso qualcuno lo avesse disturbato durante il meritato riposo.
Come credete che rispose Peppino, già in pigiama, all’invocazione di aiuto degli amici del circolo?
«Mo vengo».

L’arrivo di Peppino fu salutato con entusiasmo, accentuato anche dai numerosi grappini e limoncelli che nel frattempo il proprietario del circolo distribuiva che nemmeno i portatori d’acqua durante la costruzione della piramide di Cheope.
Il controllore si mise subito al lavoro, chino sul biliardo con la testa fra le mani, alla fine sentenziò:
«La questione è difficile, qua ci vuole un esperto. Fatemi chiamare Armando».

Armando era l’uomo giusto, l’unico che forse poteva svelare l’arcano. Lavorava anche lui per le Ferrovie dello Stato, qualifica di macchinista, e sul comodino aveva una copia rilegata in pelle con le bordature d’oro della già citata enciclica Porca Pupattiarum.
Tempo zero e Armando si era fiondato al circolo per dare la sua opinione. Ne andava del suo orgoglio professionale.
I due esperti cominciarono a discutere animatamente riguardo il problema. Qualcuno dal fondo della sala, evidentemente un fine cultore del metodo sperimentale, suggerì di prendere in prestito due treni per risolvere empiricamente la questione. Per un attimo sembrò anche una buona idea, ma fortunatamente alla fine prevalse la corrente di quelli a cui l’alcol mette malinconia e stanchezza e perciò la accantonarono.
Erano passate cinque o sei ore quando alla fine, attraverso complicati calcoli e schemi fatti con bicchieri, biglie e stecche da biliardo, quel manipolo di uomini riuscì a risolvere il problema.
Tutti si diedero la mano e si fecero i complimenti, sembrava di stare alla NASA quando hanno riportato indietro l’equipaggio dell’Apollo 13, qualcuno azzardò anche un «È stato un onore lavorare con voi». Quella sera decine di uomini andarono a dormire col sorriso sulle labbra e il cuore gonfio di orgoglio.

La mattina successiva in classe la tensione era palpabile: nessuno dei bambini era riuscito a risolvere il problema. Nessuno tranne uno, un bambino con un sorriso talmente ampio che Joker a confronto sembrava il pagliaccio triste del circo Rony Roller: mio padre. Quel bambino, forte del lavoro di equipe della sera precedente, di un faldone di 898 pagine stile maxiprocesso e di una stecca da biliardo, era sicuro di ricevere i complimenti della maestra.
Com’è finita la storia? Il bambino prese 15 e saltò direttamente dalla terza elementare al secondo anno di ingegneria meccanica? Nel cortile della scuola venne innalzato un monumento commemorativo dell’impresa? La maestra si commosse e gli regalò un modellino di Frecciarossa scala 1:1?

Nulla di tutto questo. Essendo una ferma sostenitrice del metodo Montessori, la donna, appena vide le 898 pagine di calcoli, senza nemmeno aprirlo, fece fare al quaderno un volo che in confronto i prototipi dei veicoli sub-orbitali sembrano degli aeroplanini di carta.
Quello che poteva essere un grande successo si rivelò un catastrofico fallimento, mettendo una pietra tombale sulla carriera di matematico di mio padre, mia, dei miei fratelli e non mi sentirei di escludere anche i miei nipoti e pronipoti.

Giunti a questo punto vi potreste anche chiedere che c’entrano i fatti miei con Giambattista Marino e il Barocco.
Un attimo che ci arrivo, ma prima fatemi spiegare prima chi è il nostro eroe.

Che Giambattista Marino fosse destinato ad essere l’esponente del Barocco letterario lo si doveva capire già dal nome: Wikipedia ve lo cita come Giovan Battista, la Treccani come Giambattista, la via dove abitava mio zio Amedeo Giovanni Battista. Insomma più confuso di John Travolta nelle GIF su Facebook.
Quello che è sicuro è che nacque a Napoli nel 1569. Come ogni buon scrittore che si rispetti il padre voleva che diventasse avvocato, ma lui no, proprio non ci tiene a fare soldi e perciò si dedica alla letteratura. Bisogna dire che il genitore del giovane Giambattista prese abbastanza bene la decisione del figlio, infatti lo cacciò letteralmente di casa, costringendolo a una vita da vagabondo (la parola clochard fortunatamente non era ancora di moda) per la bellezza di tre anni.
Giusto per amor di cronaca: alcune malelingue successivamente misero in giro la voce, assolutamente infondata, che in realtà fu messo alla porta perché lui e la sorella fecero qualcosa di molto simile a Cersei e Jamie Lannister (guardatevi Il trono di spade per capire di che sto parlando… insomma, non posso essere esplicito, sto blog lo legge pure mia madre…).

Nel frattempo Giambattista, che tecnicamente ha realizzato il suo sogno, fare la fame per amore della Letteratura, continua a scrivere e di lui, senza nemmeno prendersi la briga di partecipare a un talent o di iscriversi alla Scuola Holden di Baricco, si accorge Matteo di Capua, che non era né una pizzeria della provincia di Caserta né il cugino continentale di Peppino di Capri. Matteo di Capua era il mecenate nientemeno che di Torquato Tasso.
Tanto per capirci a che livello siamo: voi state suonando la vostra chitarrina sotto una stazione della metropolitana e improvvisamente compare Raffaella Carrà con tanto di poltrona in similpelle girevole che vi chiede di entrare nella sua squadra.
Più o meno fu una cosa così.

Questo incontro segna la vita del nostro eroe: comincia a frequentare l’alta società e diviene il segretario del principe Giulio Cortese. In questo periodo entra nell’Accademia degli Svegliati di cui faceva parte anche lo stesso Tasso. Nell’accademia non si discute solo di Letteratura, ma anche di scienze e soprattutto politica. E infatti dopo poco viene chiusa dall’Inquisizione.

In realtà questo non era il problema più grave per Marino, visto che nello stesso periodo viene arrestato due volte. La prima nel 1598, quando viene accusato di aver fatto abortire una donna che forse portava in grembo proprio suo figlio. La seconda volta nel 1600, quando in occasione di un duello ci scappa il morto. Ci sarebbe anche una terza accusa, quella di aver tentato di far passare il suo caso dal tribunale “civile” a quello ecclesiastico, pur non avendone diritto.
Insomma, era proprio quel tipo di persona che vedresti bene a fare l’amministratore delegato di un ente pubblico.

Il nostro Giambattista però è un uomo che ama i colpi di scena, infatti dopo la chiusura dell’Accademia degli Svegliati ci si aspetterebbe che restasse a Napoli, visto che è l’unica città in Italia in cui non è attiva l’Inquisizione, essendo parte del Regno di Spagna («nessuno si aspetta l’Inquisizione spagnola» direbbero i Monty Python).
Invece no, lui dove va? Proprio dove l’Inquisizione è più attiva: a Roma.

Era forse uno sprovveduto? Voleva praticamente suicidarsi? Era votato a diventare un martire del libero pensiero?
Niente di tutto ciò, stiamo parlando di un grande poeta ma anche di un potenziale omicida, truffatore e imbroglione e perciò d’ufficio gli spettavano delle conoscenze e ammanigliamenti nel mondo politico.

A Roma il nostro eroe non solo stringe rapporti con importanti, e soprattutto potenti, uomini di Chiesa ma entra a far parte anche dell’Accademia Romana, poi sciolta perché il fratello del suo fondatore, Onofrio Santacroce, viene accusato di aver ucciso la madre.
Ci sarebbero i presupposti per pensare che a questo punto Giambattista Marino porti un po’ di sfiga alle accademie di cui entra a far parte, ma stranamente la voce non circola e perciò diviene membro dell’Accademia degli Umoristi.
Come ogni circolo esclusivo che si rispetti anche l’Accademia degli Umoristi ha degli iscritti di un certo spessore: Alessandro Tassoni (no, non è quello della cedrata) e Gabriello Chiabrera (i genitori erano indecisi se chiamarlo Gabriello o Deborho, con la acca). Ma l’incontro più importante sarà quello con la sua nemesi, il suo nemico più acerrimo. Come Napoleone Bonaparte e l’ammiraglio Nelson, Cicerone e Catilina, Diabolik e Ginko, Topolino e Gambadilegno, Metallari ed Emo, quelli a cui piace la Nutella e i bugiardi, Giambattista Marino si scontra con Gaspare Murtola, poeta al servizio di Iacopo Serra.
I due già dall’inizio si stanno reciprocamente ad un’altezza che un esperto di anatomia umana potrebbe definire senza dubbio: pelvica. Infatti i due cominciano a scambiarsi sonetti di scherno talmente epici che a confronto le liti su Twitter fra Beliebers e Directioners sembrano un raduno di alpini all’Oktober Fest (se non avete a che fare con adolescenti e non avete capito di che sto parlando, per la vostra salute mentale vi consiglio di NON informarvi sull’argomento).

Ma il nostro caro Giambattista si ricorda che un giorno verrà citato come esponente principale del Barocco italiano e perciò capisce che non può stare fermo in un solo posto. Per questo motivo comincia a viaggiare, prima a Venezia dove stampa le Rime, e poi Firenze, Bologna e Siena.
Non avendo una grandissima voglia di lavorare e non potendo partecipare come opinionista alle trasmissioni di calcio come Mughini, per poter campare entra al servizio del cardinale Pietro Aldobrandini. Sarà stato un cardinale che credeva in una Chiesa più giusta e vicina ai poveri e gli emarginati? Naturalmente no, Marino si sceglie come protettore il nipote di papa Clemente VIII. Sembrerebbe che all’epoca esistessero le raccomandazioni.

Gli anni passati al servizio dell’Aldobrandini sono abbastanza tranquilli, ma, come in un film di Fantozzi, le cose cambiano quando muore papa Clemente VIII e viene eletto Paolo V. Il nuovo pontefice vuole attuare una politica più rigorosa e quindi obbliga i cardinali a risiedere nelle rispettive sedi, nel caso dell’Aldobrandini è Ravenna.
In questi anni di relativo isolamento Marino comincia a scrivere l’Adone, la sua opera più famosa, ma già pensa a come sganciarsi dal cardinale per poter entrare a servizio di qualche nobile più potente.

L’occasione si presenta nel 1608, quando va a Torino con l’Aldobrandini e conosce il duca Carlo Emanuele I. Manco il tempo di scendere dalla carrozza che già ha scritto un poemetto in onore del padrone di casa, giusto per far capire le sue intenzioni.
Il problema è che alla corte del duca c’è anche Gaspare Murtola. I due cominciano subito a insultarsi attraverso dei sonetti, il che potrebbe anche sembrare divertente. Almeno fin quando Murtola non si scorda che la penna è più forte della spada e quindi decide di sparargli la bellezza di cinque colpi di pistola.

A questo punto uno si aspetterebbe un epilogo stile Jim Morrison: un poeta con una vita avventurosa che muore giovane in circostanze ambigue.
E invece no. Marino, oltre ad essere attaccato alla poltrona, lo è anche alla vita e miracolosamente ne esce senza nemmeno un graffio. Il che ci fa pensare che Murtola dovesse adottare necessariamente un cane guida.
Ma non solo, il nostro eroe addirittura si sforzò di far uscire di prigione il suo rivale, forse perché in libertà poteva sfotterlo meglio…

Con il suo nemico dietro le sbarre sembrerebbe che la carriera di Marino sia spianata e che lo aspetti un futuro radioso. E invece no! Alla corte di Carlo Emanuele I cominciano a circolare dei versi in cui si prendeva il giro il duca a causa della sua gobba e che tutti attribuiscono a Marino. Come ogni buon Savoia che si rispetti anche Carlo è un tipo che non se la prende per così poco, per cui decide di metterlo in prigione.
In realtà quelle poesie erano state scritte realmente dal nostro, solo che risalivano a dieci anni prima, per cui non potevano essere rivolte al duca.

Riacquistata la libertà dopo vicende che vi risparmio, Giambattista decide di trasferirsi a Parigi, dove viene accolto da Maria de’ Medici, vedova di Enrico IV e madre di Luigi XIII e quindi regina reggente di Francia.
Qui Marino finalmente pubblica l’Adone e si aggiudica una bella pensione che gli permette di smettere di vivere tranquillamente.
Il nostro poeta però un pochino se le cerca pure e invece di trasferirsi alle Maldive o in un paradiso fiscale per godersi i soldi, decide di ritornare in Italia, dove nel frattempo era stato eletto papa Urbano VIII.

Il nuovo pontefice è uno che evidentemente non crede nella prescrizione, per cui appena Marino mette piede in Italia gli arriva una bella raccomandata (no, non era una raccomandata, ma il senso è quello) che gli ricorda la sua adesione all’Accademia degli Svegliati, quella che era stata chiusa dall’Inquisizione. Inoltre gli viene intimato di correggere alcune sue opere, compreso l’Adone, per evitare che finiscano nell’Indice dei libri proibiti.

Il poeta reagisce come quando ti chiamano per proporti un’offerta imperdibile su acqua, luce, gas, spazzatura, canone TV, pannoloni assorbenti per le piccole perdite quotidiane: fa finta di non essere in casa. Per cui, dopo un breve soggiorno a Roma, va a Napoli, dove muore di lì a poco.
Insomma niente fine da rockstar maledetta.

Ma perché uno si deve prendere la briga di studiare Marino e l’Adone?
Innanzitutto perché stiamo parlando del più grande rappresentante del Barocco italiano ed europeo, non a caso il termine marinismo in alcuni Paesi viene usato come sinonimo di Barocco letterario.
Ma se questo non bastasse, bisogna tener presente che l’Adone è il poema più lungo di tutta la Letteratura italiana: quasi 41.000 versi.
Ora uno si potrebbe chiedere come si fa a scrivere 41.000 versi parlando solamente della storia tra Adone e Venere. Molto semplice: facendo esattamente quello che fece mio padre col suo problema di matematica. Un enorme, mostruoso, giro di parole.
In fin dei conti il Barocco è proprio questo, cioè scrivere in 41.000 versi quello che posso esprimere comodamente con un SMS.

In verità a scuola di Giambattista Marino si studia molto poco, vuoi perché praticamente è l’unico rappresentate del Barocco italiano, vuoi perché effettivamente non è proprio di facilissima lettura.
Se vi sembra che stia esagerando lascio giudicare voi proponendovi qualche verso del famoso Elogio della rosa.

Quasi in bel trono Imperatrice altera
siedi colà su la nativa sponda.
Turba d'aure vezzosa e lusinghiera
ti corteggia d'intorno e ti seconda;
e di guardie pungenti armata schiera
ti difende per tutto, e ti circonda.
E tu fastosa del tuo regio vanto
porti d'or la corona e d'ostro il manto.
Porpora dè giardin, pompa dè prati,
gemma di primavera, occhio d'aprile,
dite le Grazie e gli Amoretti alati
fan ghirlanda a la chioma, al sen monile.
Tu, qualor torna a gli alimenti usati
ape leggiadra o zeffiro gentile,
dài lor da bere in tazza di rubini
rugiadosi licori e cristallini.
Non superbisca ambizioso il Sole
di trionfar fra le minori stelle,
che ancor tu fra i ligustri e le viole
scopri le pompe tue superbe e belle.
Tu sei con tue bellezze uniche e sole
splendor di queste piagge, egli di quelle.



Praticamente Venere ringrazia la rosa che l’ha punta con una spina consentendole di conoscere Adone.
Ecco come si fa a scrivere un poema di 41.000 versi.

Detta così sembra che quasi quasi sia meglio l’ultimo libro di Francesco Sole, che già di suo fa rimpiangere le vette poetiche dei Post-it tipo «Ricordati di compare la pomata per le emorroidi», con tanto di cuoricino finale.
Vi assicuro che è solo apparenza.
Dietro alla stesura dell’Adone non vi è solo amore per i giri di parole, le metafore e un’estrema quanto fastidiosa paraculaggine, Giambattista Marino per arrivare a realizzare il poema più lungo della Letteratura italiana fa un’enorme ricerca, dall’Odissea alle Metamorfosi di Ovidio passando per Le dionisiache di Nonno di Pannopoli (che non è uno scrittore molto anziano con problemi di incontinenza). E tutto questo senza saper né leggere né scrivere il greco.
Nelle immagini ricche e a volte fin troppo pompose dell’Adone sembra di vedere il perfetto corrispettivo letterario delle chiese e dei monumenti barocchi che milioni di turisti vengono a visitare ogni anno in Italia. Ed è un peccato che nelle ore di Letteratura a scuola gli venga dato pochissimo spazio, considerando anche che Marino forse è più conosciuto all’estero che in patria. Forse non gli abbiamo mai perdonato di essere un assassino e un  ladro e di non essersi mai buttato in politica.
Meriterebbe davvero di più.
Almeno una fornitura a vita di Fiordifragola.