venerdì 18 marzo 2016

Giambattista Marino: Ti regalerò una rosa...

Se c’è una cosa che mi ha insegnato Star Wars, oltre a procurarmi
 delle ustioni di terzo grado simulando dei combattimenti con i tubi
al neon al posto delle spade laser, è che a volte ci sono persone che nascono già con un destino segnato. Hai voglia a combattere con tutte le tue forze per raggiungere uno scopo, spesso la vita ti portadove vuole lei e tu manco te ne accorgi (vabbè, questa mi è uscita un pochettino alla Ligabue ma abbiate pazienza).
Vi faccio un esempio: la domanda tipo che di solito mi viene fatta quando mi presentano amici di amici oppure in occasione di rimpatriate con parenti talmente alla lontana che nemmeno il test del DNA potrebbe dimostrare un’effettiva familiarità è: «Ma com’è che hai scelto di studiare Lettere?». La domanda di per sé sarebbe pure legittima ma di solito viene formulata con un’impercettibile sfumatura che non sfugge a un orecchio avvezzo, per cui se la si registra e poi la si ascolta al contrario come i CD di Marilyn Manson è possibile udire: «A sto punto potevi pure fare il grattatore di Gratta&Vinci professionista, tanto c’hai le stesse probabilità di avere un minimo di stabilità economica».
Ebbene, amici miei, vi dico in verità che due sono le strade che conducono a studiare Lettere:

  1. Un effettivo amore per la Letteratura che può portare a scrivere poemetti a 16 anni come Leopardi e alla perdita di qualsiasi possibilità di accoppiarvi con un essere della vostra stessa specie
  2. Un odio smisurato e irrazionale verso tutto ciò che è anche minimamente accostabile alla matematica, il che solitamente porta a litigare sistematicamente con le cassiere di Auchan perché vi ostinate a voler utilizzare il baratto come metodo di pagamento pur di non dover controllare il resto

Nel 99% dei casi, anche se non lo ammettiamo nemmeno se ci strappate le unghie dei piedi, si diventa cultori della Letteratura per la seconda eventualità.
Per quanto mi riguarda l’avversità nei confronti della matematica ce la tramandiamo di generazione in generazione, come i bolli non pagati della 127 Abarth di nonno.
Tutto iniziò in una giornata autunnale negli anni ’60.

Mio padre all’epoca frequentava la scuola elementare. A quel tempo non si facevano cartelloni da appendere in classe, la cattedra si trovava su una pedana in modo da essere sollevata, le interrogazioni avvenivano rigorosamente in piedi, se ti comportavi male ti pigliavi una bacchettata sulle mani. 
Praticamente una via di mezzo fra Full Metal Jacket e Il trono di spade, solo un pochettino più crudele.
Le cronache raccontano che un bel giorno la maestra diede il classico compito di matematica del tipo: «Due treni A e B partono alla medesima ora da due stazioni poste agli estremi di un lungo rettilineo lungo 435 km. Il primo treno procede a velocità costante a 70 km/h mentre il secondo si muove a 75 km/h. Dopo quanto tempo si incontreranno i due treni? E a che distanza rispetto alla stazione di partenza del treno A?».
Ora, dove possiamo trovare un rettilineo di 435 km e di quali farmaci facesse uso la signora per dare un quesito del genere a dei bambini di scuola elementare è una questione secondaria, concentriamoci piuttosto sulla vicenda principale. 
Ovviamente a me ste cose non riuscivano in quinta liceo, figuriamoci a mio padre che andava in terza elementare, per cui mia nonna, avendo notato il sangue che sgorgava abbastanza copiosamente dalle orecchie del figlio, un po’ per pietà, un po’ perché si era scocciata di pulire il suddetto sangue dal pavimento, gli consigliò di farsi dare una mano da mio nonno, ai tempi assiduo frequentatore del circolo di biliardo dietro casa.
Quaderno alla mano, così mio padre raggiunse il circoletto. Siamo in un quartiere operaio verso la prima metà degli anni ’60, capite bene che quella era gente che dopo una giornata in fabbrica tutto voleva tranne che problemi, soprattutto quelli di matematica; senza contare il fatto che a causa della guerra il titolo di studio più alto nel raggio di 18 km quadrati era: battesimo.
Naturalmente nemmeno mio nonno era in grado di risolvere la questione ed è qui che avvenne il miracolo. Vuoi per noia, vuoi perché era gente dal cuore buono, vuoi perché «oh, meno di vent’anni fa abbiamo cacciato i nazisti a calci prima che arrivassero gli Alleati e mo figurati se mi lascio intimidire da una maestra con evidenti problemi relazionali», fatto sta che attorno al biliardo dove era appoggiato il quaderno si formò un mucchietto di curiosi. Insomma, nel giro di un quarto d’ora scarso le discussioni sulla partita della domenica precedente si erano trasformate in disquisizioni di ordine fisico-teorico che nemmeno nel cortile della Normale di Pisa. 

Quella sera ognuno disse la sua, si fecero ipotesi e schemi con le biglie della carambola, vennero consumate le meningi nonché un discreto numero di mezzi litri di vino bianco, tanto che mio padre si aggiudicò una fornitura di Fiodifragola a vita gentilmente offerta dal proprietario del circolo come segno di riconoscenza per gli incassi di quella sera. Eppure, nonostante il brain storming, dopo ore di accalorate discussioni non si riusciva a venirne fuori. Il fatto che quegli eroi non avessero avuto la possibilità di andare a scuola non significava di certo che mancassero d’ingegno, per cui a qualcuno a un certo punto venne un’idea brillante.
«Chiamiamo mio cognato Peppino!»
Peppino era forse un ingegnere? Un libero docente di fisica applicata alla Sorbona? Il visionario ideatore degli acceleratori di particelle del CERN? 
Nulla di tutto questo. Peppino lavorava per le Ferrovie dello Stato, per la precisione controllore.

Adesso, le cronache raccontano che Peppino all’epoca avesse una figlia che doveva sposarsi, per cui faceva dei turni massacranti di 14-16 ore al giorno per farle il corredo, ragion per cui sul comodino aveva una copia dell’enciclica Porca Pupattiarum di papa Leone IX, il che gli garantiva l’indulgenza plenaria, anche nel caso avesse bestemmiato tutti i santi del calendario in aramaico, nel caso qualcuno lo avesse disturbato durante il meritato riposo.
Come credete che rispose Peppino, già in pigiama, all’invocazione di aiuto degli amici del circolo?
«Mo vengo».

L’arrivo di Peppino fu salutato con entusiasmo, accentuato anche dai numerosi grappini e limoncelli che nel frattempo il proprietario del circolo distribuiva che nemmeno i portatori d’acqua durante la costruzione della piramide di Cheope.
Il controllore si mise subito al lavoro, chino sul biliardo con la testa fra le mani, alla fine sentenziò:
«La questione è difficile, qua ci vuole un esperto. Fatemi chiamare Armando».

Armando era l’uomo giusto, l’unico che forse poteva svelare l’arcano. Lavorava anche lui per le Ferrovie dello Stato, qualifica di macchinista, e sul comodino aveva una copia rilegata in pelle con le bordature d’oro della già citata enciclica Porca Pupattiarum.
Tempo zero e Armando si era fiondato al circolo per dare la sua opinione. Ne andava del suo orgoglio professionale.
I due esperti cominciarono a discutere animatamente riguardo il problema. Qualcuno dal fondo della sala, evidentemente un fine cultore del metodo sperimentale, suggerì di prendere in prestito due treni per risolvere empiricamente la questione. Per un attimo sembrò anche una buona idea, ma fortunatamente alla fine prevalse la corrente di quelli a cui l’alcol mette malinconia e stanchezza e perciò la accantonarono.
Erano passate cinque o sei ore quando alla fine, attraverso complicati calcoli e schemi fatti con bicchieri, biglie e stecche da biliardo, quel manipolo di uomini riuscì a risolvere il problema.
Tutti si diedero la mano e si fecero i complimenti, sembrava di stare alla NASA quando hanno riportato indietro l’equipaggio dell’Apollo 13, qualcuno azzardò anche un «È stato un onore lavorare con voi». Quella sera decine di uomini andarono a dormire col sorriso sulle labbra e il cuore gonfio di orgoglio.

La mattina successiva in classe la tensione era palpabile: nessuno dei bambini era riuscito a risolvere il problema. Nessuno tranne uno, un bambino con un sorriso talmente ampio che Joker a confronto sembrava il pagliaccio triste del circo Rony Roller: mio padre. Quel bambino, forte del lavoro di equipe della sera precedente, di un faldone di 898 pagine stile maxiprocesso e di una stecca da biliardo, era sicuro di ricevere i complimenti della maestra.
Com’è finita la storia? Il bambino prese 15 e saltò direttamente dalla terza elementare al secondo anno di ingegneria meccanica? Nel cortile della scuola venne innalzato un monumento commemorativo dell’impresa? La maestra si commosse e gli regalò un modellino di Frecciarossa scala 1:1?

Nulla di tutto questo. Essendo una ferma sostenitrice del metodo Montessori, la donna, appena vide le 898 pagine di calcoli, senza nemmeno aprirlo, fece fare al quaderno un volo che in confronto i prototipi dei veicoli sub-orbitali sembrano degli aeroplanini di carta.
Quello che poteva essere un grande successo si rivelò un catastrofico fallimento, mettendo una pietra tombale sulla carriera di matematico di mio padre, mia, dei miei fratelli e non mi sentirei di escludere anche i miei nipoti e pronipoti.

Giunti a questo punto vi potreste anche chiedere che c’entrano i fatti miei con Giambattista Marino e il Barocco.
Un attimo che ci arrivo, ma prima fatemi spiegare prima chi è il nostro eroe.

Che Giambattista Marino fosse destinato ad essere l’esponente del Barocco letterario lo si doveva capire già dal nome: Wikipedia ve lo cita come Giovan Battista, la Treccani come Giambattista, la via dove abitava mio zio Amedeo Giovanni Battista. Insomma più confuso di John Travolta nelle GIF su Facebook.
Quello che è sicuro è che nacque a Napoli nel 1569. Come ogni buon scrittore che si rispetti il padre voleva che diventasse avvocato, ma lui no, proprio non ci tiene a fare soldi e perciò si dedica alla letteratura. Bisogna dire che il genitore del giovane Giambattista prese abbastanza bene la decisione del figlio, infatti lo cacciò letteralmente di casa, costringendolo a una vita da vagabondo (la parola clochard fortunatamente non era ancora di moda) per la bellezza di tre anni.
Giusto per amor di cronaca: alcune malelingue successivamente misero in giro la voce, assolutamente infondata, che in realtà fu messo alla porta perché lui e la sorella fecero qualcosa di molto simile a Cersei e Jamie Lannister (guardatevi Il trono di spade per capire di che sto parlando… insomma, non posso essere esplicito, sto blog lo legge pure mia madre…).

Nel frattempo Giambattista, che tecnicamente ha realizzato il suo sogno, fare la fame per amore della Letteratura, continua a scrivere e di lui, senza nemmeno prendersi la briga di partecipare a un talent o di iscriversi alla Scuola Holden di Baricco, si accorge Matteo di Capua, che non era né una pizzeria della provincia di Caserta né il cugino continentale di Peppino di Capri. Matteo di Capua era il mecenate nientemeno che di Torquato Tasso.
Tanto per capirci a che livello siamo: voi state suonando la vostra chitarrina sotto una stazione della metropolitana e improvvisamente compare Raffaella Carrà con tanto di poltrona in similpelle girevole che vi chiede di entrare nella sua squadra.
Più o meno fu una cosa così.

Questo incontro segna la vita del nostro eroe: comincia a frequentare l’alta società e diviene il segretario del principe Giulio Cortese. In questo periodo entra nell’Accademia degli Svegliati di cui faceva parte anche lo stesso Tasso. Nell’accademia non si discute solo di Letteratura, ma anche di scienze e soprattutto politica. E infatti dopo poco viene chiusa dall’Inquisizione.

In realtà questo non era il problema più grave per Marino, visto che nello stesso periodo viene arrestato due volte. La prima nel 1598, quando viene accusato di aver fatto abortire una donna che forse portava in grembo proprio suo figlio. La seconda volta nel 1600, quando in occasione di un duello ci scappa il morto. Ci sarebbe anche una terza accusa, quella di aver tentato di far passare il suo caso dal tribunale “civile” a quello ecclesiastico, pur non avendone diritto.
Insomma, era proprio quel tipo di persona che vedresti bene a fare l’amministratore delegato di un ente pubblico.

Il nostro Giambattista però è un uomo che ama i colpi di scena, infatti dopo la chiusura dell’Accademia degli Svegliati ci si aspetterebbe che restasse a Napoli, visto che è l’unica città in Italia in cui non è attiva l’Inquisizione, essendo parte del Regno di Spagna («nessuno si aspetta l’Inquisizione spagnola» direbbero i Monty Python).
Invece no, lui dove va? Proprio dove l’Inquisizione è più attiva: a Roma.

Era forse uno sprovveduto? Voleva praticamente suicidarsi? Era votato a diventare un martire del libero pensiero?
Niente di tutto ciò, stiamo parlando di un grande poeta ma anche di un potenziale omicida, truffatore e imbroglione e perciò d’ufficio gli spettavano delle conoscenze e ammanigliamenti nel mondo politico.

A Roma il nostro eroe non solo stringe rapporti con importanti, e soprattutto potenti, uomini di Chiesa ma entra a far parte anche dell’Accademia Romana, poi sciolta perché il fratello del suo fondatore, Onofrio Santacroce, viene accusato di aver ucciso la madre.
Ci sarebbero i presupposti per pensare che a questo punto Giambattista Marino porti un po’ di sfiga alle accademie di cui entra a far parte, ma stranamente la voce non circola e perciò diviene membro dell’Accademia degli Umoristi.
Come ogni circolo esclusivo che si rispetti anche l’Accademia degli Umoristi ha degli iscritti di un certo spessore: Alessandro Tassoni (no, non è quello della cedrata) e Gabriello Chiabrera (i genitori erano indecisi se chiamarlo Gabriello o Deborho, con la acca). Ma l’incontro più importante sarà quello con la sua nemesi, il suo nemico più acerrimo. Come Napoleone Bonaparte e l’ammiraglio Nelson, Cicerone e Catilina, Diabolik e Ginko, Topolino e Gambadilegno, Metallari ed Emo, quelli a cui piace la Nutella e i bugiardi, Giambattista Marino si scontra con Gaspare Murtola, poeta al servizio di Iacopo Serra.
I due già dall’inizio si stanno reciprocamente ad un’altezza che un esperto di anatomia umana potrebbe definire senza dubbio: pelvica. Infatti i due cominciano a scambiarsi sonetti di scherno talmente epici che a confronto le liti su Twitter fra Beliebers e Directioners sembrano un raduno di alpini all’Oktober Fest (se non avete a che fare con adolescenti e non avete capito di che sto parlando, per la vostra salute mentale vi consiglio di NON informarvi sull’argomento).

Ma il nostro caro Giambattista si ricorda che un giorno verrà citato come esponente principale del Barocco italiano e perciò capisce che non può stare fermo in un solo posto. Per questo motivo comincia a viaggiare, prima a Venezia dove stampa le Rime, e poi Firenze, Bologna e Siena.
Non avendo una grandissima voglia di lavorare e non potendo partecipare come opinionista alle trasmissioni di calcio come Mughini, per poter campare entra al servizio del cardinale Pietro Aldobrandini. Sarà stato un cardinale che credeva in una Chiesa più giusta e vicina ai poveri e gli emarginati? Naturalmente no, Marino si sceglie come protettore il nipote di papa Clemente VIII. Sembrerebbe che all’epoca esistessero le raccomandazioni.

Gli anni passati al servizio dell’Aldobrandini sono abbastanza tranquilli, ma, come in un film di Fantozzi, le cose cambiano quando muore papa Clemente VIII e viene eletto Paolo V. Il nuovo pontefice vuole attuare una politica più rigorosa e quindi obbliga i cardinali a risiedere nelle rispettive sedi, nel caso dell’Aldobrandini è Ravenna.
In questi anni di relativo isolamento Marino comincia a scrivere l’Adone, la sua opera più famosa, ma già pensa a come sganciarsi dal cardinale per poter entrare a servizio di qualche nobile più potente.

L’occasione si presenta nel 1608, quando va a Torino con l’Aldobrandini e conosce il duca Carlo Emanuele I. Manco il tempo di scendere dalla carrozza che già ha scritto un poemetto in onore del padrone di casa, giusto per far capire le sue intenzioni.
Il problema è che alla corte del duca c’è anche Gaspare Murtola. I due cominciano subito a insultarsi attraverso dei sonetti, il che potrebbe anche sembrare divertente. Almeno fin quando Murtola non si scorda che la penna è più forte della spada e quindi decide di sparargli la bellezza di cinque colpi di pistola.

A questo punto uno si aspetterebbe un epilogo stile Jim Morrison: un poeta con una vita avventurosa che muore giovane in circostanze ambigue.
E invece no. Marino, oltre ad essere attaccato alla poltrona, lo è anche alla vita e miracolosamente ne esce senza nemmeno un graffio. Il che ci fa pensare che Murtola dovesse adottare necessariamente un cane guida.
Ma non solo, il nostro eroe addirittura si sforzò di far uscire di prigione il suo rivale, forse perché in libertà poteva sfotterlo meglio…

Con il suo nemico dietro le sbarre sembrerebbe che la carriera di Marino sia spianata e che lo aspetti un futuro radioso. E invece no! Alla corte di Carlo Emanuele I cominciano a circolare dei versi in cui si prendeva il giro il duca a causa della sua gobba e che tutti attribuiscono a Marino. Come ogni buon Savoia che si rispetti anche Carlo è un tipo che non se la prende per così poco, per cui decide di metterlo in prigione.
In realtà quelle poesie erano state scritte realmente dal nostro, solo che risalivano a dieci anni prima, per cui non potevano essere rivolte al duca.

Riacquistata la libertà dopo vicende che vi risparmio, Giambattista decide di trasferirsi a Parigi, dove viene accolto da Maria de’ Medici, vedova di Enrico IV e madre di Luigi XIII e quindi regina reggente di Francia.
Qui Marino finalmente pubblica l’Adone e si aggiudica una bella pensione che gli permette di smettere di vivere tranquillamente.
Il nostro poeta però un pochino se le cerca pure e invece di trasferirsi alle Maldive o in un paradiso fiscale per godersi i soldi, decide di ritornare in Italia, dove nel frattempo era stato eletto papa Urbano VIII.

Il nuovo pontefice è uno che evidentemente non crede nella prescrizione, per cui appena Marino mette piede in Italia gli arriva una bella raccomandata (no, non era una raccomandata, ma il senso è quello) che gli ricorda la sua adesione all’Accademia degli Svegliati, quella che era stata chiusa dall’Inquisizione. Inoltre gli viene intimato di correggere alcune sue opere, compreso l’Adone, per evitare che finiscano nell’Indice dei libri proibiti.

Il poeta reagisce come quando ti chiamano per proporti un’offerta imperdibile su acqua, luce, gas, spazzatura, canone TV, pannoloni assorbenti per le piccole perdite quotidiane: fa finta di non essere in casa. Per cui, dopo un breve soggiorno a Roma, va a Napoli, dove muore di lì a poco.
Insomma niente fine da rockstar maledetta.

Ma perché uno si deve prendere la briga di studiare Marino e l’Adone?
Innanzitutto perché stiamo parlando del più grande rappresentante del Barocco italiano ed europeo, non a caso il termine marinismo in alcuni Paesi viene usato come sinonimo di Barocco letterario.
Ma se questo non bastasse, bisogna tener presente che l’Adone è il poema più lungo di tutta la Letteratura italiana: quasi 41.000 versi.
Ora uno si potrebbe chiedere come si fa a scrivere 41.000 versi parlando solamente della storia tra Adone e Venere. Molto semplice: facendo esattamente quello che fece mio padre col suo problema di matematica. Un enorme, mostruoso, giro di parole.
In fin dei conti il Barocco è proprio questo, cioè scrivere in 41.000 versi quello che posso esprimere comodamente con un SMS.

In verità a scuola di Giambattista Marino si studia molto poco, vuoi perché praticamente è l’unico rappresentate del Barocco italiano, vuoi perché effettivamente non è proprio di facilissima lettura.
Se vi sembra che stia esagerando lascio giudicare voi proponendovi qualche verso del famoso Elogio della rosa.

Quasi in bel trono Imperatrice altera
siedi colà su la nativa sponda.
Turba d'aure vezzosa e lusinghiera
ti corteggia d'intorno e ti seconda;
e di guardie pungenti armata schiera
ti difende per tutto, e ti circonda.
E tu fastosa del tuo regio vanto
porti d'or la corona e d'ostro il manto.
Porpora dè giardin, pompa dè prati,
gemma di primavera, occhio d'aprile,
dite le Grazie e gli Amoretti alati
fan ghirlanda a la chioma, al sen monile.
Tu, qualor torna a gli alimenti usati
ape leggiadra o zeffiro gentile,
dài lor da bere in tazza di rubini
rugiadosi licori e cristallini.
Non superbisca ambizioso il Sole
di trionfar fra le minori stelle,
che ancor tu fra i ligustri e le viole
scopri le pompe tue superbe e belle.
Tu sei con tue bellezze uniche e sole
splendor di queste piagge, egli di quelle.



Praticamente Venere ringrazia la rosa che l’ha punta con una spina consentendole di conoscere Adone.
Ecco come si fa a scrivere un poema di 41.000 versi.

Detta così sembra che quasi quasi sia meglio l’ultimo libro di Francesco Sole, che già di suo fa rimpiangere le vette poetiche dei Post-it tipo «Ricordati di compare la pomata per le emorroidi», con tanto di cuoricino finale.
Vi assicuro che è solo apparenza.
Dietro alla stesura dell’Adone non vi è solo amore per i giri di parole, le metafore e un’estrema quanto fastidiosa paraculaggine, Giambattista Marino per arrivare a realizzare il poema più lungo della Letteratura italiana fa un’enorme ricerca, dall’Odissea alle Metamorfosi di Ovidio passando per Le dionisiache di Nonno di Pannopoli (che non è uno scrittore molto anziano con problemi di incontinenza). E tutto questo senza saper né leggere né scrivere il greco.
Nelle immagini ricche e a volte fin troppo pompose dell’Adone sembra di vedere il perfetto corrispettivo letterario delle chiese e dei monumenti barocchi che milioni di turisti vengono a visitare ogni anno in Italia. Ed è un peccato che nelle ore di Letteratura a scuola gli venga dato pochissimo spazio, considerando anche che Marino forse è più conosciuto all’estero che in patria. Forse non gli abbiamo mai perdonato di essere un assassino e un  ladro e di non essersi mai buttato in politica.
Meriterebbe davvero di più.
Almeno una fornitura a vita di Fiordifragola.



domenica 22 novembre 2015

Metti che vado un attimo in Siberia (ovvero #dimmicosaleggi #diecilibri)

Peggio della Cavalleria rusticana, raccolgo l’invito fatto dai
ragazzi di LegendaLetteraria e mi unisco anch’io all’hashtag (sì, davanti alla acca ci vuole l’apostrofo, ho controllato sul sito della Crusca) #dimmicosaleggi e #diecilibri.
Giustamente vi starete chiedendo di cosa stiamo parlando. 
Inizialmente avevo capito che dovevo buttare giù una lista di dieci persone che arei voluto mandare in Siberia, il che mi ha provocato non pochi disagi fra gli amici e in famiglia appena ho reso noti i nominativi. Poi, rileggendo meglio l’invito, ho scoperto l’arcano: dovevo immaginare di andare io in Siberia (ma come, con tutta la gente che ci sta da mandarci devo proprio andarci io?), rinchiuso in una specie di baita, ma senza il fastidio di avere tirolesi intorno che mettono alla prova le tue capacità agiografiche facendo dell’ottimo jodel dalla mattina alla sera. Cosa puoi fare in queste circostanze? Ti unisci alla famiglia di Educazione siberiana? Vai a crepare di mazzate sul cranio dei poveri e indifesi cuccioli di foca? Cavalchi spensierato l’orso polare di Putin?
Capite bene che i divertimenti in queste circostanze sono un po’ pochini, così – sempre nella finzione – sono costretto a portarmi 10 libri di cui proprio non farei a meno.
Sì, lo so che voi starete dicendo «Ma portati il biglietto per il ritorno», «Portati una stufa», «Portati il pisolone», «Portati Barbara D’Urso», «Portati la maglia di lana» (quest’ultima è suggerita da mia madre).
Oh, ma lo scopo dell’hashtag è quello di farmi nominare 10 libri. Per cui ecco la mia Siberian-glacial-c’ho-le-dita-dei-piedi-che-sembrano-calippi-frizz-top-ten:

  1. La Divina Commedia di Dante Alighieri. Che volete, ragioni affettive, culturali, il fatto che essendo bella lunga mi vale già tre libri…
  2. Opinioni di un clown di Heinrich Böll. Nonostante il titolo da filmone sovietico sottotitolato in cecoslovacco, è un libro che consiglio di leggere. Sì, pure a te che leggi il mio blog
  3. Bar sport di Stefano Benni. La prima volta che l’ho letto era in pubblico e la gente mi aveva preso per un imbecille perché ridevo da solo. Poi ho smesso di ridere ma non è che le cose sono cambiate tantissimo
  4. Fiesta di Ernest Hemingway. Lo porterei solo per una ragione: chi viaggia solitamente è tentato di scrivere e pubblicare i suoi pensieri. Ecco, leggendolo capirei che non posso arrivare al suo livello, per cui eviterei di ammorbare la gente con frasi tipo: «Gli ultimi sfavilli sanguigni zampillavano sull’infaticabile lavorio dei flutti» parlando dei 15 giorni che ho trascorso a Mondragone da zia Nunziatina
  5. Fight club di Chuck Palahniuk. Avete presente quando vi dicono che il libro è meglio del film?
  6. Il vangelo secondo Gesù Cristo di José Saramago. Il modo migliore per eliminare ogni tipo di conflitti e preconcetti di natura religiosa
  7. Sostiene Pereira di Antonio Tabucchi. Per questo non ce l’ho una motivazione. È un capolavoro e basta
  8. Il cavaliere inesistente di Italo Calvino. Lo porterei per ricordarmi che in fondo posso pure vivere senza Facebook e social network in generale
  9. Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcia Marquez. Per ricordarmi i bei tempi in cui esistevano anche Marquez simpatici che non facevano biscotti
  10. Una ballata del mare salato di Hugo Pratt. No, non lo chiamate “fumetto” che vengo a casa vostra a sostituirvi la carta igienica con quella moschicida


Arrivati a questo punto la leggenda vuole che passi la palla a qualcun altro, per cui eccovi le due blogger (serie, non come me) che coinvolgo in questo hashtag (effettivamente Catena di Sant’Antonio faceva un pochettino schifo come nome):

                                                    Appuntuario


















venerdì 11 settembre 2015

Il Deserto dei Tartari: Non il solito parmigiano

Fra di noi ce lo possiamo anche dire liberamente: francamente sta faccenda dell’Expo ci sta sfuggendo un pochettino di mano. Mica lo dico con il solito spirito di quello che deve andare controcorrente per forza, quel posto già me l’ha rubato Andrea Scanzi (maledetto!). È solo che da quando l’hanno inaugurato si parla solo di quello. Dovunque. Ne parla Corrado Augias su Repubblica, ne parla Maurizio Belpietro su Libero, ne parla Selvaggia Lucarelli dove le capita, ne parla la conduttrice di Mezzogiorno Italiano (non lo conosco il nome, ma sono abbastanza sicuro che neanche in Rai lo sanno). Da fonti attendibili sembra che ne parlino anche le donnine nude sui canali privati che pubblicizzano i servizi di hotline (sì, ci sono ancora gli amanti dell’onanismo 1.0).
Insomma, non dico che non se ne debba parlare, ma dopo l’ennesima, quotidiana, intervista al Commissario Unico dell’Expo ti senti un pochino come se qualcuno ti avesse infilato un Nicer Dicer nelle mutande.


A parte questo, non capisco tutte queste polemiche per l’Expo, soprattutto quando il suo obiettivo è quello di dare una mano a risolvere il problema della fame nel mondo: è assolutamente evidente che far pagare una pizza margherita 15 euro o prendere un ottimo sorbetto al fiore sacro dell’Himalaya nel padiglione Nepalese per la modica cifra di 88 euro è il metodo più rapido ed efficiente per aiutare le popolazioni che soffrono la fame. Praticamente è come ambientare la nuova stagione del Boss delle cerimonie direttamente nel quartiere povero di Kabul.
Personalmente, a parte il martellamento costante, quello che mi dà veramente sui nervi è il continuo mettere l’accento sull’eccellenza italiana: va bene quando si parla di parmigiano e anguille fritte, ma se si parla negli stessi termini anche delle persone...

Già, non so se ve ne siete accorti, ma da quando è cominciato l’Expo è tutto un invitare gente che dieci anni fa ha lasciato l’Italia perché qui gli avevano detto che tre lauree e cinque master c’erano buone probabilità di essere assunti a tempo determinato, part-time, come rappresentante del Folletto (con tutta la stima e la simpatia per la categoria), mentre adesso si devono accontentare di dirigere il CERN di Ginevra e sparare nano particelle alla velocità della luce per carpire i segreti dell'universo. Cioè, funziona un po’ come quando la ragazza dei vostri sogni si mette finalmente con voi dopo anni passati sulla linea Maginot del corteggiamento-stalking e poi lei non fa altro che parlare del suo ex. Non un’esperienza delle più appaganti.

Ma poi perché si parla solo dell’eccellenza quando qui abbiamo il fior fiore di gente mediocre che insegna nelle università, opera a cuore aperto, fa l’opinionista in televisione o scrive su blog di letteratura parlando delle costole di D’Annunzio? Che forse la mediocrità non sia degna di attenzione? La gente mediocre forse non merita un posto nella storia? «Vabbè - direte voi - se uno è mediocre non ha fatto grandi cose». Eppure, amici miei, il mediocre ha il suo fascino. E non sto parlando di roba intellettuale tipo l’inettitudine di Svevo: lì già siamo a un livello superiore, lì abbiamo persone che almeno ci hanno provato. Mi sto riferendo invece a gente che nella vita è stata assolutamente ferma, non si è mai mossa di un millimetro. Possibile raccontare la storia di un personaggio del genere ed essere annoverati fra gli scrittori più influenti del Novecento?
La risposta è sì e l’uomo che ci è riuscito è Dino Buzzati con Il deserto dei Tartari.


«Dino chi?». Già, purtroppo Dino Buzzati non è fra gli autori più studiati a scuola, pure perché è difficile farlo rientrare in una corrente o una scuola di pensiero ben definita, quindi l’unico modo per conoscerlo è comprare qualche suo libro. 
Come direbbe il protagonista di Rocky Horror Picture Show non bisogna giudicare un libro dalla copertina ma in effetti è quello che facciamo un po’ tutti (provate a scrivere sulle diete e metterci Platinette in copertina e poi ne riparliamo). Di conseguenza il motivo per cui le opere di Dino Buzzati siano un’esclusiva per i cultori della Letteratura, da chiedere in libreria con la stessa discrezione con cui si chiederebbe al farmacista una cassa di Preparazione H, sta nelle scelte che i grafici delle case editrici operano per metterle sul mercato: paesaggi brulli, castelli giallo-ocra, personaggi senza volto… Vabbè che il libro si chiama Il deserto dei Tartari e che una foto di Scarlett Johansson stonerebbe in pochino, però così alla gente le fai addormentare ancora prima di leggerlo sto libro.

Visto che normalmente se durante una conversazione sulla Letteratura si cita Dino Buzzati improvvisamente compare dal nulla un immenso punto interrogativo luminoso di 3x2 metri, prima di capire perché devo comprare un libro con una copertina orribile, ci conviene dare una brevissima occhiata alla vita di questo autore.
Dino Buzzati nacque nel 1906 vicino Belluno da una famiglia di umili origini, infatti il padre era un celebre giurista dell’epoca, la madre apparteneva al patriziato veneziano e il nome Dino gli fu dato in  ricordo di un suo zio scrittore, Dino Mantovani, citato anche da Benedetto Croce in una sua opera (e io che spero ancora di essere taggato un giorno da Gianni Morandi). Il giovane Dino prima ancora di finire i suoi studi in giurisprudenza comincia a lavorare al Corriere della Sera e non come stagista addetto alle fotocopie pagato in caffè e schiacciatine olive e pomodoro del distributore della redazione. No, ci lavora come titolista, cioè quello che sceglie i titoli degli articoli. Un pochettino più in basso del direttore praticamente.
Nel frattempo si dedica anche alla scrittura, stimolata anche dalle esperienze lavorative, infatti lavora al Deserto dei Tartari mentre è corrispondente ad Addis Abeba nel 1940. Tuttavia la sua carriera letteraria era iniziata nel 1933 con Bàrnabo delle montagne, un romanzo che ha una carica di magone pari a 14 R.M.M. (Romanzi di Margaret Mazzantini, scala internazionale per classificare i libri che provocano un irresistibile voglia di aprire i rubinetti del metano e inalarne fortemente l'aroma).
Nel corso degli anni pubblica una serie di romanzi e racconti che vengono quasi ignorati dalla critica italiana, mentre in Francia il nostro Dino diventava quasi un eroe nazionale per Il deserto dei Tartari. Valli a capire i francesi, magari lì i grafici delle case editrici sono un po’ più allegri.
Ma cos’è che spinge i grafici italiani a realizzare delle copertine orrende per il capolavoro di Buzzati?

Effettivamente sulle prime Il deserto dei Tartari è un romanzo che ci lascia un po’ perplessi: non si sa dove è ambientato, non si sa quando è ambientato, fino a un certo punto non è chiaro chi sia il protagonista.
«Ah, ma allora sarà pieno di azione». Bene, mettetevi un attimo seduti perché devo farvi una rivelazione: in tutto il libro non accade quasi nulla.


Ora, so che state pensando che sarà uno di quei polpettoni stile film intimista francese ambientato in una sola stanza in cui i protagonisti si dicono sì e no tre parole ma in compenso si scambiano degli sguardi carichi di significati che per lo più sfuggono al povero spettatore che voleva solo guardare il film dei Minions ma ha sbagliato sala.
Non ci crederete ma non è così. E allora di cosa parla sta benedetto romanzo?


Giovanni Drogo è un giovane ufficiale che viene mandato, come prima destinazione, alla Fortezza Bastiani, un avamposto ai confini dell’impero (di cui non conosceremo mai il nome, ma potrebbe essere l’Impero austro-ungarico) e che si affaccia su una sterminata pianura che tutti chiamano il deserto dei Tartari (in realtà però in tutto il romanzo si vede meno Tartaro che in una pubblicità di dentifrici).
Adesso immaginate sto ragazzo che si trova a due giorni di viaggio a cavallo da casa sua (e qui potremmo pensare che la storia è ambientata fra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento), in mezzo al deserto, senza un piffero da fare. Naturalmente la prima cosa a cui pensa il nostro eroe è tornare a casa il prima possibile, però gli viene fatto capire che chiedere il trasferimento dopo appena un giorno potrebbe pregiudicare la sua carriera di ufficiale, per cui il maggiore Matti, capo della fortezza, gli consiglia di attendere quattro mesi e poi farsi trasferire per motivi di salute.


Controvoglia allora Drogo decide di rimanere alla fortezza e scopre che al suo interno la vita si svolge secondo dei riti quotidiani sempre uguali. Ma la cosa che stupisce di più Giovanni è il fatto che quasi nessuno dei suoi nuovi compagni sembra desideroso di essere trasferito, anzi tutti sembrano sperare che prima o poi dal deserto un giorno arrivino i nemici e tutti potranno avere il proprio momento di gloria.
«Ma com’è che un romanzo pieno di soldati viene considerato appartenente al genere fantastico?». Un attimo che ci arrivo.


Passano quattro mesi e finalmente Giovanni ha l’occasione di tornare a casa, ma nel momento in cui il medico sta per firmare il certificato di inabilità Drogo lo ferma: da una finestra la fortezza gli appare bellissima e immensa. Ha contratto anche lui la malattia della fortezza, un morbo che sembra colpire tutti gli abitanti dell’avamposto, un misto di amore e odio che rende quasi impossibile abbandonare la fortezza.
E qui già stiamo praticamente a metà del libro e non è successo nulla. Il vuoto pneumatico.


Dopo quattro anni Giovanni torna a casa ma tutto è cambiato: i fratelli vivono ormai lontano, la madre si è disabituata alla sua presenza, quando va a trovare la sorella di un suo amico per cui nutriva una certa simpatia si svolge un dialogo che nemmeno nei migliori ascensori condominiali quando incontri la vecchietta del terzo piano, mentre il suo Yorkshire sta vivendo un’intesa storia d’amore col tuo polpaccio.
Durante questa vacanza però decide comunque di fare un tentativo, senza troppa convinzione, presso un generale per essere trasferito e qui scopre che il personale della fortezza sta per essere drasticamente diminuito, infatti molti suoi compagni avevano fatto domanda di trasferimento, senza che lui ne sapesse nulla. 


A un’ottantina di pagine dalla fine sembra che finalmente ci sia una svolta: fra le nebbie del deserto qualcosa si muove. Tutti sono euforici, forse è la grande occasione che stanno aspettando (sono pacifista ma immagino che qualsiasi cosa fosse meglio di stare alla fortezza senza sapere come va a finire The Big Bang Theory). La grande eccitazione però è destinata a durare poco, infatti si scopre che “il nemico” (no, non sono i Tartari) sta costruendo una strada per motivi civili.
Gli anni continuano a passare e Drogo ormai è vecchio e ammalato, convinto che la sua vita sia trascorsa invano. Eppure qualcosa accade: l’esercito del Nord muove guerra contro l’impero. Giovanni vorrebbe dare una mano, riscattare la sua vita, dare un senso a tutti quegli anni passati alla fortezza.
Lo aspetta una morte in battaglia?
Lo aspetta guidare l’esercito alla carica contro i nemici?
Gli tocca gridare «Questa è Sparta!» vestito da generale austro-ungarico con tanto di pennacchio in testa?


No. Semplicemente viene rispedito a casa che manco un pacco della DHL e non tanto perché è malato, ma perché, visto che la fortezza sarà l’epicentro della guerra che sta per iniziare, serve spazio per accogliere i soldati che stanno arrivando.
Insomma, bastava chiamare un architetto dell’IKEA che ti spiegava come sfruttare tutti gli spazi e  il gioco era fatto.

E questo era Il deserto dei Tartari.
Sinceramente raccontato così non è che sto romanzo sia un granché. Ma prima di archiviarlo alla voce: Cose che fa figo citare senza averle lette mai, vediamo perché uno si dovrebbe prendere la briga di affrontare un autore che a scuola non viene nominato neanche sotto tortura.

Il problema del Deserto dei Tartari è che appartiene a quella categoria di libri di cui è impossibile raccontare la trama senza fare un’accurata quanto abrasiva (sapete a cosa mi riferisco) analisi delle tematiche.
Nonostante per tutto il tempo non accada un fico secco (ci sono due morti: una per assideramento e un’altra per un incidente), arrivati alla fine di un capitolo non possiamo fare a meno di leggere quello successivo. Vi concedo che questo può accadere per vedere dove vuole arrivare l’autore, che in ogni caso ha portato a casa il risultato.

Spesso si cita questo libro come un esempio di letteratura fantastica, eppure le uniche cose “magiche” che accadono sono la fantomatica malattia della fortezza, per la quale onestamente basterebbe un bravo psicologo, e un sogno premonitore fatto da Drogo a proposito della morte di un suo compagno.
Giovanni Drogo non è bello, non è particolarmente coraggioso, non ha capacità speciali, non possiede poteri sovrumani. È un ragazzotto della buona borghesia del suo Paese, qualunque sia, che per paura di fare cattiva impressione sui suoi superiori decide di restare alla fortezza.

Siete ancora meno convinti e non comprereste un libro del genere nemmeno se si decidessero a mettergli una copertina decente?
Allora mettiamola così: senza voler andare troppo ad analizzare la poetica di Buzzati, senza voler troppo andare a ravanare nei temi dell’angoscia, della solitudine, della magia e così via… quanti pensate siano gli autori capaci di scrivere un libro dove non c’è azione e allo stesso tempo tenere il lettore incollato fino all’ultima pagina?


Ecco, stiamo cominciando a capirci. Nonostante le case editrici cerchino a tutti i costi di spacciarlo per un mattone impossibile da leggere, Il deserto dei Tartari è un’opera di una modernità allucinante. Se per un bambino è facile immedesimarsi in Harry Potter perché il gioco e la fantasia sono il suo pane quotidiano, quanto può essere difficile identificarsi in Drogo per una stagista che si sente non valorizzata dai suoi superiori, per un operaio che deve subire i capricci del suo datore di lavoro, per un impiegato che subisce in silenzio le angherie del suo capoufficio e comunque ha troppa paura di lasciare tutto e cambiare vita?
Allora capiamo davvero che Buzzati in un certo senso ha percepito in che direzione stavamo andando e ha saputo costruire una storia basata su un uomo mediocre e della cui mediocrità si riscatterà solo troppo tardi, al momento della morte, quando nella sua stanza scoprirà di non aver più paura di essa, dell’ignoto, dopo una vita passata ad osservarlo attraverso le nebbie del deserto dei Tartari.


Se non vi fidate di quello che sto dicendo e credete che Buzzati sia il solito sopravvalutato che qualche critico ha rispolverato per scriverci un saggio da affibbiare ai suoi studenti, considerate che nel 1969 pubblicò un libro dal titolo Poema a fumetti, che può essere considerata la prima graphic novel italiana (se consideriamo la Ballata del mare salato di Hugo Pratt strettamente come un fumetto) e comunque anticipando di parecchi anni gli americani.
E con questo vi ho dato un buon motivo per citare Dino Buzzati in un duello all’ultimo autore con qualsiasi blogger che tratti Letteratura (siamo la categoria di persone più litigiose dopo i motociclisti ubriachi dell’Alabama).

Ora però devo lasciarsi. Altrimenti mi si scioglie il sorbetto al fiore sacro dell’Himalaya.

domenica 7 giugno 2015

Luigi Pirandello: Misterioso nella notte va...

Ritratto pirandello
Gli esimi economisti intervistati da Unomattina in un orario comodo solo per i latitanti ce lo ricordano: è necessario che ognuno di noi faccia uno sforzo per far circolare la moneta e attivare quel circolo virtuoso che permetta di uscire da questo Medioevo economico e creare milioni e milioni di posti di lavoro.
Per questo motivo qualche mese fa, animato da fervente spirito patriottico e a fronte di decine e decine di lezioni private a studenti che mi chiedevano come facevano i crociati a pagarsi le crociere (sic), ho preso il coraggio a due mani e, sganciando 31,50 euro, ho comprato un Chromecast: il miglior acquisto della mia vita dopo il pupazzo di Darth Vader che muove il testone a ogni vibrazione (45 euro a Disneyland Paris, mi auguro che con quei soldi abbiano comprato solo supposte effervescenti).

DISCLAIMER

Se già conoscete il funzionamento del Chromecast potete saltare il seguente paragrafo. Se siete della Guardia di Finanza potete considerare la spiegazione che segue come frutto della mia fervida immaginazione.

Il Chromecast è un prodigioso apparecchio che somiglia a una penna USB che si collega alla presa HD del vostro TV (combo di sigle +900000 punti). In breve: attraverso questa pennetta potete navigare in internet col vostro televisore e vedere filmati da YouTube.
«Eh, bella scoperta! I nuovi televisori già lo fanno!».
Sì, caro amico con uno stipendio fisso che cerchi di mortificarmi mettendo in bella mostra la tua posizione sociale, hai assolutamente ragione, però, come dice San Marzullo, protettore dei metronotte e dei panettieri, fatti una domanda e datti una risposta: secondo te, facendo lezioni a 3 euro/ora due volte a settimana, posso permettermi una Smart TV? Ecco, ci sei arrivato da solo.
Ma andiamo avanti.
La leggenda narra che collegando questo apparecchio al telefonino (non fate come mio fratello che me l’ha riportato indietro perché il suo Nokia 3310 non gli si collegava) sia possibile navigare sui siti di streaming e vedere i film direttamente sul vostro televisore.

Ora, date queste premesse, non so voi, ma per me il Chromecast è stato come i Beatles per la generazione degli anni 60, come Sulla strada per quella degli anni 70, come Jeeg Robot d'Acciao per quella degli anni 80, come Postal Market per quella degli anni 90 (ma questo vale solo per i maschietti e nemmeno per tutte le pagine). Insomma, mi ha aperto le porte della percezione e mi ha rivelato un mondo di cui conoscevo l’esistenza ma ne ignoravo le delizie: l’universo delle serie TV.
Dal momento in cui ho montato questa pennetta dall’aria innocente ho visto tutte le stagioni di: GomorraOrange is the new black, Breaking Bad, Big Bang Theory, How I met your mother, The Walking Dead, 1992 (da un’idea, un tantinello discutibile, di Stefano Accorsi) e un’altra decina di cui non vi riporto i nomi perché già così non so se le major mi possono fare causa (o Stefano Accorsi).
Come un tossicomane vagavo per la rete alla ricerca di nuove serie di cui nutrirmi, quando ho iniziato a cercare su Google: CentoVetrine streaming ho capito di aver toccato il fondo e, piangendo in posizione fetale, ho urlato: «Come sono arrivato fino a questo punto?», mentre una pioggia scrosciante mi batteva. Nonostante fossi in casa e facesse 32 gradi.

Dopo aver riadattato gli occhi alla luce del sole mi sono reso conto che mentre ero nel mio limbo di camorristi zombie impasticcati in tute arancioni laureati in fisica che cercano di sposarsi facendosi venire idee da Stefano Accorsi, il mondo intorno a me era cambiato. Ho scoperto che:
  • L’astronave-madre è tornata a riprendersi Andreotti
  • La ruspa è diventata una filosofia di vita
  • La Cristoforetti ha dato una nuova sfumatura alla locuzione fuga di cervelli
  • Salvini ha fatto la stessa cosa
  • Colorado è considerato un programma comico
A parte tutto, quello che mi è dispiaciuto di più è stato perdermi tutti quei bei omicidi nostrani. Ah, quelle belle interviste al criminologo di turno, quelle pugnalate ruspanti, quelle martellate alla nuca, le interviste ai vicini che, con una faccia basita, dicono di fronte alla telecamera «Era una così brava persona», i sondaggi fatti ai vecchietti davanti ai cantieri della metropolitana che presi alla sprovvista non possono che affermare «Non si capisce più nulla. Ai miei tempi non succedevano queste cose».

Momento, momento, momento. Siamo sicuri che quello-che-saluta-sempre-la-vicina-ottantenne-ma-nel-frattempo-ha-fatto-a-pezzi-la-nonna-e-l’ha-congelata-nei-sacchetti-gelo-come-la-peperonata sia un fenomeno nuovo?

Ebbene amici miei, a confutare questa tesi non sarò io ma nientemeno che Luigi Pirandello.

Luigi Pirandello nasce ad Agrigento nel 1867 da una famiglia benestante, il padre, ex garibaldino, infatti si occupava della gestione di una miniera di zolfo.

L’istruzione elementare di Pirandello-baby avviene in casa, con dei maestri privati, successivamente si iscrive prima ad un istituto tecnico e poi al ginnasio. Qui il giovane Luigi si appassiona alla letteratura (la leggenda narra che all’epoca con la cultura ci si campasse abbastanza bene) e perciò decide di iscriversi prima all’università di Palermo, poi a quella di Roma ma si laureerà a Bonn.

Ma perché Pirandello finisce per laurearsi in Germania?

Tutto nasce durante una lezione di latino in cui un professore sbaglia a tradurre un passo, Pirandello e un suo amico prete se ne accorgono e cominciano a ridacchiare. Con il proverbiale aplomb del professore universitario (mi auguro che nessuno di loro legga questo post), questo comincia a urlare e ad insultare il giovane prete. Data l’evidente ingiustizia, Pirandello allora decide di alzarsi e rivelare a tutti il motivo di quelle risatine. Applausi a scena aperta.

Peccato che all’epoca non ci fossero gli smartphone, ragion per cui nessuno ha potuto caricare il video su YouTube e farlo circolare su Facebook e quindi farlo finire di diritto sulla pagina di Repubblica.it con il titolo: «Questo studente universitario si è tolto una bella soddisfazione. Ha detto al prof che…» costringendoti a cliccare sul link.

Il povero Luigi quindi finisce davanti Consiglio di disciplina dell’Università di Roma che lo obbliga ad abbandonare l’ateneo. Tuttavia un altro suo docente si era accorto delle potenzialità del giovane, per cui gli consiglia ad iscriversi all’Università di Bonn, in cui insegnava un suo carissimo amico che a quanto pare si occupava di meritocrazia.

Tornato in Italia, nel 1894 Pirandello sposa Maria Antonietta Portulano. E qui iniziano i guai.

Infatti nel 1903 la famiglia di Pirandello viene ridotta praticamente in miseria a causa di una frana in una miniera gestita dal padre. Il tracollo economico non aiuta la situazione psicologica di Maria Antonietta che già di suo circolava per casa di notte con un coltello in mano (provateci voi a dormire tranquilli con Jack Nicholson di Shining a fianco), in più le sue crisi di gelosia diventano patologiche, tanto che viene rinchiusa in un ospedale psichiatrico dove morirà nel 1959.

Ora, la domanda più stupida che si può fare a uno scrittore è: «C’è qualcosa di autobiografico nei tuoi romanzi?». Anche se mi metto a scrivere un racconto di fantascienza è ovvio che qualcosa di autobiografico c’è: l’ho scritto io! Quindi figuratevi se tutta sta storia della miniera e della moglie che andava in escandescenza non poteva non influenzare le opere di Pirandello.
Ragione per cui nel 1908 Luigi Pirandello pubblica un saggio dal titolo L’umorismo. Arrivati a questo punto del programma lo studente medio, già piagato da un anno scolastico all’insegna dell’allegria, in cui si è sciroppato Manzoni, Verga, D’Annunzio e Carducci, pensa: «Finalmente adesso si ride un po’». Sbagliato!

Dopo la lettura del saggio solitamente si prova un senso di solitudine e smarrimento che nemmeno in un documentario sovietico sulla vita sociale del lemure artico.

Pirandello in pratica dice: mettiamo che ipoteticamente un giorno inventino la televisione e mettiamo che trasmettano dei programmi. Mettiamo che fra questi programmi ce ne sia uno in cui persone di una certa età per arrotondare la pensione minima di 450 euro si prestino a fare determinate cose. Mettiamo anche che queste ipotetiche persone, dopo una vita di onesto lavoro, debbano truccarsi e vestirsi come dei dodicenni, nemmeno particolarmente brillanti, per far ridere il pubblico. Alla fine qual è il risultato?

  1. Il comico, cioè l’avvertimento del contrario: in pratica è la risata spontanea, di pancia. È quando ridiamo della situazione perché avvertiamo che c’è qualcosa che non va ovvero che va in contrasto con la realtà
  2. L’umorismo, cioè il sentimento del contrario: in pratica avvertiamo che c’è qualcosa che non quadra però dopo la risata spontanea ci mettiamo un attimo a riflettere sul perché un’ottantenne si veste come una delle Winx e questo ci provoca un sorriso malinconico perché, in fondo in fondo, la paura che prima o poi facciamo la stessa fine per mettere il piatto a tavola un pochino ce l’abbiamo
In pratica Pirandello si riferiva più o meno a questo:

Angela favolosa 1 586x332

Oh, naturalmente mi sono permesso di parafrasare un pochino.

Nel frattempo Pirandello, dopo una breve parentesi verista, scrive anche dei romanzi come  Il fu Mattia Pascal Uno, nessuno e centomila. Tuttavia non essendo ancora deceduto, requisito minimo per avere recensioni positive dai critici letterari italiani, le sue opere letterarie non vengono apprezzate, ma il nostro eroe ha un’altra passione, forse anche più forte della Letteratura: il teatro.
In pochi anni Pirandello sforna una produzione teatrale sconfinata: Liolà, Così è (se vi pare), Il berretto a sonagli, Sei personaggi in cerca d’autore e tantissimi altri titoli che porta in scena nei più grandi teatri italiani e stranieri, tanto che addirittura Albert Einstein volle conoscerlo nel corso di una tournée teatrale negli Stati Uniti.
Il successo di Pirandello fu tale che nel 1934 viene insignito del Premio Nobel. E io mi vanto ancora per la targa vinta alla corsa coi sacchi a nove anni. 


Veniamo però alla nostra rubrica dal titolo Controversie. Nel 1924 Luigi Pirandello scrive una lettera a Benito Mussolini pregandolo di accettare la sua iscrizione al Partito Fascista.
Adesso, sta cosa del rapporto tra fascismo e Pirandello non si è mai risolta né la risolveremo su questo blog (eddai, vi sembro il tipo?) però vi riporto le interpretazioni che sono state fatte.

  • Pirandello aderì al fascismo perché era di famiglia risorgimentale e forse considerava Mussolini l’uomo della provvidenza (non sarebbe stato l’unico), capace di risollevare la situazione italiana
  • Pirandello aderì al fascismo per non avere problemi col regime (se fosse vera questa ipotesi Pirandello oltre a prevedere la deriva della televisione italiana avrebbe previsto anche quella del regime fascista)

Forse si tratta di un po’ tutte e due i fattori, non lo sapremo mai. Fatto sta che nonostante l’omicidio Matteotti (dopo il quale addirittura Giovanni Gentile prenderà le distanze da Mussolini), nonostante Pirandello fosse tra i primi firmatari del Manifesto degli intellettuali fascisti e nonostante avesse donato la medaglia del Nobel per la raccolta dell’oro alla patria (a dire la verità partecipò pure Benedetto Croce che era antifascista), il regime lo trattò sempre con un certo distacco.

Certo, a Mussolini faceva comodo un nome di risonanza internazionale che si dichiarava apertamente fascista, però gli preferì sempre D’Annunzio, tant’è vero che gli verrà imposto di curare la regia teatrale della Figlia di Jorio di D’Annunzio. Che è un po’ come comprare quei dischi Mina canta Toto Cutugno. Solo che a Mina nessuno l’ha costretta, le canta davvero lei per scelta!

Ma perché i fascisti non apprezzavano Pirandello più di tanto?
Il problema stava nel fatto che Pirandello aveva una concezione della vita considerata dal regime troppo borghese, in particolare non era ben vista la poetica delle maschere.

Il nostro Luigi è vissuto nel periodo d’oro della psicanalisi, per di più la malattia della moglie aveva molto influenzato il suo modo di vedere il mondo.
Pirandello ritiene che ognuno di noi indossa una maschera che gli viene imposta dalla famiglia, dalla società, dal nostro datore di lavoro o addirittura da noi stessi. Vale a dire che nessuno è ciò che sembra, ci conformiamo all’idea che gli altri si sono fatti di noi: studente, impiegato, maestra, ingegnere… Ecco perché salutiamo sempre quando incontriamo qualcuno nell’androne del condominio ma nel frattempo abbiamo macellato il nostro salumiere.

Quindi tutti sono infelici perché non sono liberi di essere loro stessi? Per Pirandello è proprio così, siamo destinati a trascinarci su questa terra facendo finta di essere ciò che non siamo, per cui potrebbe essere che Lapo Elkann nel chiuso della sua stanzetta legga saggi di fenomenologia dello spirito, Salvini sogni di viaggiare per il mondo in roulotte e Alberto Angela in gran segreto non si è perso un solo concerto di Miley Cyrus.
Naturalmente sta storia della maschera non è che possiamo utilizzarla con la Guardia di Finanza dicendo «Scusate, ma allora non avete letto Pirandello!» quando scoprono che mentre dichiariamo un reddito di 375 euro l’anno nel frattempo abbiamo la Lamborghini in garage.

Tuttavia una via d’uscita c’è. Per Pirandello infatti esistono tre possibili reazioni quando ci rendiamo conto che viviamo con una maschera appiccicata sul viso: 
  1. Reazione passiva: aspetto che la natura faccia il suo corso e mi rassegno
  2. Reazione umoristica: cerco di trarre vantaggio dalla maschera che indosso evidenziandone alcuni aspetti (è in pratica quello che accade nel Fu Mattia Pascal)
  3. Reazione drammatica: non mi rassegno e cerco di strapparmi la maschera, tuttavia non ci riuscirò mai per cui o divento matto o mi suicido (Uno, nessuno e centomila)

Lo so, lo so, in realtà nessuna di queste è una via d’uscita ma Pirandello appena gli toccavano le maschere si incazzava come Kenshiro a una riunione di condomino.

«Insomma, dobbiamo chiudere pure quest’anno scolastico col magone?» si domandano giustamente gli studenti di terza media e quinto superiore. Non proprio.
Le commedie di Pirandello sono piene di un umorismo vivace, il problema non sta tanto nel lessico di inizio Novecento, quanto nel trovare biglietti per il teatro a prezzi accessibili a studenti di scuole medie e superiori (e ai loro insegnanti precari).

Insomma Pirandello va letto e studiato perché più di altri è riuscito a prevedere l’evoluzione della società fino ai giorni nostri, fatta di profili Facebook falsi e fotografie a ogni singola pietanza per far vedere agli altri che ci stiamo divertendo, solo che contemporaneamente non riusciamo a godere veramente del momento. Le maschere di Pirandello sono ancora vive e vegete e le indossiamo ogni giorni senza saperlo.

E poi, oh, le sue opere vengono rappresentate ancora oggi in tutti i teatri del mondo. E non sono nemmeno nate da un’idea di Stefano Accorsi.